Visita a Martigny
La strada è bella, sovrastata per la maggior parte dei tratti dal Monte Bianco, dal ghiacciaio dei Bossons e dall'inaridita Mer de Glace. Tra curve e paesi più o meno noti, dove il sole tramonta presto, si arriva alla frontiera dove, nonostante Shenghen, non ti si fila nessuno perché ormai la Svizzera vive con la doppia moneta, ed è la prima volta che mi trovo a scoprire che qualcosa in Svizzera costa meno: la benzina ed il gasolio per esempio, ma non roviniamoci la gita, la mia reale e la vostra virtuale.
Martigny sta posata come un lenzuolo ai piedi del passo di Forcaz, in una valle così ben quadrata da non lasciare dubbi sulla sua origine glaciale.
Nella ripidissima discesa, il costone esposto a sud-ovest sfoggia ettari di vigneti appesi a strapiombo, sorprendenti, e ancora più sorprendente il trabiccolo che i viticoltori hanno escogitato per tirare su la vendemmia: un sistema cinghia-puleggia che tira su una tinozza che a sua volta scarica in un tino.
Dagli ultimi tornanti si cominciano a vedere le vestigia dell'anfiteatro romano, unica cosa un po' di traverso rispetto all'ordinatissima organizzazione del suolo svizzero.
E finalmente si arriva alla Fondazione Gianadda, che manco sapevo esistesse e ora lo so e sono molto ma molto contenta.
Certamente ispirata alla più celebre Fondazione Maeght di S. Paul de Vence, non ha molto da invidiarle.
La mostra attuale è la collezione di pittura francese del Museo Puskin di Mosca, che comprende due meravigliosi Monet tra cui Impression, soleil levant, l'unica marina al mondo che mi piace, e un conturbante Picasso La dame à l'éventail, da dove scappano fuori dalla tela il genio spaziale e figurativo, la perfezione tecnica ed il turbamento emotivo di questo discutibile uomo.
Poi le statue nel giardino, tra le impertinenti facezie di Cesar (il seno, il dito), la sontuosa plasticità di Moore e l'avanguardismo troppo trascurato di Dubuffet (ripenso alla lettera che gli scrisse Jean Paulhan, un pezzetto delizioso di critica artistica, letteratura e ... filosofia). Di Rodin non parlo, è meglio, anche perché è in programma a primavera una mostra dedicata a lui e alla Claudel che penso sia davvero imperdibile.
Ma c'è stata una cosa speciale, anche se potrebbe apparire la più banale (?). La mostra fotografica di Marcel Ismand, per la quale non trovo le parole. Ha seguito per oltre un mese uno degli ultimi pastori transumanti viventi, un italiano, Luigi Cominelli, che da un paesino del bergamasco quand'è stagione arriva fino alle pasture svizzere. Sono foto dei percorsi battuti da secoli dal bestiame, ogni foto è una perla rara per suggestione, vibrazione, luce.
Bianco e nero, e tutti i grigi e i bianchi possibili, i fuochi notturni, la tenda col suo pagliericcio, e il volto e il corpo di quest'uomo che è di una bellezza smisurata, Luigi, va proprio oltre ogni possibile immaginazione. Come le sue pecore e il suo asino (azz, l'asino, ce l'ho qua, l'asino). Tutti sono colti come in una processione incalzante verso LA destinazione, un esodo volitivo e trascinante descritto meravigliosamente dalla mano del fotografo.
Da sola, questa mostra, vale il viaggio.
E il ritorno tra le stesse valli, gli stessi ghiacciai morenti, il sole che s'acquatta e il temporale imminente - proprio come quello in uno dei quadri, con quei colori tipici, il grigio piombo in alto e qualche infiltrazione di luce che traversa orizzontalmente gli alberi e si spegne sul fianco di una montagna. E ora l'acqua rumorosa che ha messo a casa i piccioni e dentro le vetrine i barboni. Chissà dov'è Luigi con le pecore.
Martigny sta posata come un lenzuolo ai piedi del passo di Forcaz, in una valle così ben quadrata da non lasciare dubbi sulla sua origine glaciale.
Nella ripidissima discesa, il costone esposto a sud-ovest sfoggia ettari di vigneti appesi a strapiombo, sorprendenti, e ancora più sorprendente il trabiccolo che i viticoltori hanno escogitato per tirare su la vendemmia: un sistema cinghia-puleggia che tira su una tinozza che a sua volta scarica in un tino.
Dagli ultimi tornanti si cominciano a vedere le vestigia dell'anfiteatro romano, unica cosa un po' di traverso rispetto all'ordinatissima organizzazione del suolo svizzero.
E finalmente si arriva alla Fondazione Gianadda, che manco sapevo esistesse e ora lo so e sono molto ma molto contenta.
Certamente ispirata alla più celebre Fondazione Maeght di S. Paul de Vence, non ha molto da invidiarle.
La mostra attuale è la collezione di pittura francese del Museo Puskin di Mosca, che comprende due meravigliosi Monet tra cui Impression, soleil levant, l'unica marina al mondo che mi piace, e un conturbante Picasso La dame à l'éventail, da dove scappano fuori dalla tela il genio spaziale e figurativo, la perfezione tecnica ed il turbamento emotivo di questo discutibile uomo.
Poi le statue nel giardino, tra le impertinenti facezie di Cesar (il seno, il dito), la sontuosa plasticità di Moore e l'avanguardismo troppo trascurato di Dubuffet (ripenso alla lettera che gli scrisse Jean Paulhan, un pezzetto delizioso di critica artistica, letteratura e ... filosofia). Di Rodin non parlo, è meglio, anche perché è in programma a primavera una mostra dedicata a lui e alla Claudel che penso sia davvero imperdibile.
Ma c'è stata una cosa speciale, anche se potrebbe apparire la più banale (?). La mostra fotografica di Marcel Ismand, per la quale non trovo le parole. Ha seguito per oltre un mese uno degli ultimi pastori transumanti viventi, un italiano, Luigi Cominelli, che da un paesino del bergamasco quand'è stagione arriva fino alle pasture svizzere. Sono foto dei percorsi battuti da secoli dal bestiame, ogni foto è una perla rara per suggestione, vibrazione, luce.
Bianco e nero, e tutti i grigi e i bianchi possibili, i fuochi notturni, la tenda col suo pagliericcio, e il volto e il corpo di quest'uomo che è di una bellezza smisurata, Luigi, va proprio oltre ogni possibile immaginazione. Come le sue pecore e il suo asino (azz, l'asino, ce l'ho qua, l'asino). Tutti sono colti come in una processione incalzante verso LA destinazione, un esodo volitivo e trascinante descritto meravigliosamente dalla mano del fotografo.
Da sola, questa mostra, vale il viaggio.
E il ritorno tra le stesse valli, gli stessi ghiacciai morenti, il sole che s'acquatta e il temporale imminente - proprio come quello in uno dei quadri, con quei colori tipici, il grigio piombo in alto e qualche infiltrazione di luce che traversa orizzontalmente gli alberi e si spegne sul fianco di una montagna. E ora l'acqua rumorosa che ha messo a casa i piccioni e dentro le vetrine i barboni. Chissà dov'è Luigi con le pecore.
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