Eroi? No grazie
"... perché ogni virtù, salvo nella brevità del riconoscimento, è priva di splendore e vive in una caverna buia circondata da altri abitanti, alcuni dei quali molto pericolosi ..."
R. Bolaňo, 2666
Il viatico della virtù è la bava lunga, così lunga da metabolizzarsi, della struttura rigida dei ruoli; la virtù non corrisponde a nessun valore condiviso, è riservata a pochi e funziona come una carta d'identità e poi un passaporto. Non parlo di tempi andati. Quella virtù di cui parlo è (ancora) presente in molte persone come una malattia, perché non sanno riconoscersi e farsi riconoscere, sentirsi degne di sé e potersi nominare agli altri senza questa identità, unica, sola identità che diventa orgoglio proprio in una società che di questa virtù non sa che farsene.
Detta così, questa virtù non apparirebbe patologica se non fosse che quella di cui intendo parlare è identità unica, esclude insomma ogni altra possibilità di esistere, e che sta fuori comunque dai valori, presenti o potenziali, ovvero anelati, del presente, e non penso che si possa vivere fuori dal tempo, e soprattutto dal proprio tempo.
Vorrei parlare di S., che sta molto male perché intorno a lei c'è il deserto, l'unico che sa vedere, perché sta dentro di lei. E fuori non guarda perché ha paura, e paradosso catastrofico, sta avviluppata dentro la sua paura, nel suo deserto.
S. è un'affermata psicoanalista, donna bene istruita e anche piacente. Il suo io è un buco nero nel quale qualunque sapere, anche professionale, è stato attirato; se un sapere dà qualche certezza, per S. il linguaggio psicoanalitico è diventato l'unico strumento per analizzare e capire quello che c'è fuori di sé e per dialogarci. Gli altri diventano così tutti insetti indistinti, privati di un agire talvolta inspiegabile, o autonomo, o fuori tabella, gli altri sono solo macchine desideranti cui l'entomologa assegna il compito di validare il suo sapere.
S. si offre quindi senza mediazioni e gli altri capiscono presto di non potere avere un rapporto mediato: dalla situazione, dall'umore, dal presente, dai propri limiti, dalla propria volontà ... capiscono che ogni gesto viene studiato per poi essere loro spiegato alla luce del loro inconscio, cosicché uno scatto di insofferenza perché sei stanco o una risata sbrigativa devono trovare un ragione profonda e quindi una cura, perché se S. non riesce a spiegarsi, con quel suo sapere, cosa sta accadendo nell'altro, soffre; e soffre in modo smisurato e devastante.
S. non fa altro che ripetere di essere una donna retta, che non potrebbe mai fare alcune cose che una moltitudine di persone fanno (non necessariamente perché immorali o prive di valori!). Questa sua virtù è appunto prima carta d'identità e poi passaporto. Di fatto si tratta di integralismo, ovvero di una forma esasperata di amore per sé stessi che rende impossibile qualsiasi forma di amore per gli altri.
Capita che S. si trovi davanti, in modo ovviamente del tutto imprevedibile (imprevedibile: questa è un parola importante, un concetto importante), a dover compiere una scelta impossibile tra un suo sentimento imperioso e la sua rinuncia. Aderire al sentimento imperioso la porterebbe ineluttabilmente a negare quella sua virtù, ragion d'essere sbandierata; la obbligherebbe a fare i conti con l'intransigenza mascherata da valore imprescindibile. Ma rinunciare significherebbe un dolore insopportabile, che il buco nero non riesce ad inghiottire, un dolore mortifero.
Veniamo al punto: è una questione di vita o di morte, senza metafore: vita-vita o morte-morte. A questa visione radicale che giustifica da sempre la legge del più forte, si deve opporre un antieroismo genuino, perché l'antieroe è l'unico individuo sociale e che si riconosce uguale agli altri.
Vorrei dire a S. che per mangiare bisogna darsi in pasto. E questo baratto è di per sé un valore.
Curiosamente (ma non proprio) ritrovo questa postura virtuosa (e quindi prevaricante) anche in F., che mi torna utile per allargare il discorso anche agli uomini, senza toccare però il criterio di ruolo, che qui funziona come etichetta, ovvero mezzo di riconoscimento sociale - non questione esistenziale, insomma.
F. ha frequentato in gioventù il mondo cattolico militante, aderendovi in modo plastico ed acritico, perché era giovane, perché era un modo per essere qualcuno di ben definito, per credere in qualcosa senza farsi troppe domande, per essere in qualche modo eroico.
Imprevedibilmente (!) F. scopre un giorno che quel mondo apparentemente paradigmatico viveva di doppie verità. L'intransigenza dichiarata non corrispondeva al vissuto privato. Con le armi spuntate F. (come S.) ha elaborato un disprezzo profondo per il genere umano, tuttavia caratterizzato e classificato, una top ten che vede nell'ordine al primo posto le donne (perché F. è un uomo), seguite dai preti, dalle madri (simbolo di amore ipocrita e di ruolo irraggiungibile), dagli idealisti, dai retorici, e via così. Il buco nero dell'ego ha cominciato a risucchiare tutto, come unico sistema energetico affidabile. Anche F. si è fatto personaggio di sé stesso, unico eroe possibile contro l'alterità incomprensibile, incoerente, inaffidabile.
Anche F. ha un sapere, è un ottimo scienziato, brillante e sufficientemente riconosciuto, anche F. interpreta la realtà e l'alterità con quell'unica chiave che ritiene di conoscere quanto basta per farne un dogma.
S. e F. sono eroi autistici, autogestiti ed immiscibili.
Sia chiaro, non è il sapere la trappola, come non lo è la fede, che sono invece l'energia rinnovabile di qualsiasi progetto umano. Piuttosto ricordiamo, come ammoniva Bourdieu, che il sapere non deve farsi elitismo, non deve stare chiuso nella torre d'avorio, e che la fede non è una forma elegante di narcisismo.
Domande:
- esistenza o coesistenza?
- l'esistenza consapevole ha senso se non si estroflette?
- la compassione, o il suo termine aggiornato condivisione, si limitano al bar dello sport o all'esercizio intellettuale di una morale manipolatoria?
- fino a che punto (voler) governare l'imprevedibilità?
- l'eroe patisce ma non compatisce, per poi essere compatito: ma abbiamo bisogno di questa perversione?
R. Bolaňo, 2666
Il viatico della virtù è la bava lunga, così lunga da metabolizzarsi, della struttura rigida dei ruoli; la virtù non corrisponde a nessun valore condiviso, è riservata a pochi e funziona come una carta d'identità e poi un passaporto. Non parlo di tempi andati. Quella virtù di cui parlo è (ancora) presente in molte persone come una malattia, perché non sanno riconoscersi e farsi riconoscere, sentirsi degne di sé e potersi nominare agli altri senza questa identità, unica, sola identità che diventa orgoglio proprio in una società che di questa virtù non sa che farsene.
Detta così, questa virtù non apparirebbe patologica se non fosse che quella di cui intendo parlare è identità unica, esclude insomma ogni altra possibilità di esistere, e che sta fuori comunque dai valori, presenti o potenziali, ovvero anelati, del presente, e non penso che si possa vivere fuori dal tempo, e soprattutto dal proprio tempo.
Vorrei parlare di S., che sta molto male perché intorno a lei c'è il deserto, l'unico che sa vedere, perché sta dentro di lei. E fuori non guarda perché ha paura, e paradosso catastrofico, sta avviluppata dentro la sua paura, nel suo deserto.
S. è un'affermata psicoanalista, donna bene istruita e anche piacente. Il suo io è un buco nero nel quale qualunque sapere, anche professionale, è stato attirato; se un sapere dà qualche certezza, per S. il linguaggio psicoanalitico è diventato l'unico strumento per analizzare e capire quello che c'è fuori di sé e per dialogarci. Gli altri diventano così tutti insetti indistinti, privati di un agire talvolta inspiegabile, o autonomo, o fuori tabella, gli altri sono solo macchine desideranti cui l'entomologa assegna il compito di validare il suo sapere.
S. si offre quindi senza mediazioni e gli altri capiscono presto di non potere avere un rapporto mediato: dalla situazione, dall'umore, dal presente, dai propri limiti, dalla propria volontà ... capiscono che ogni gesto viene studiato per poi essere loro spiegato alla luce del loro inconscio, cosicché uno scatto di insofferenza perché sei stanco o una risata sbrigativa devono trovare un ragione profonda e quindi una cura, perché se S. non riesce a spiegarsi, con quel suo sapere, cosa sta accadendo nell'altro, soffre; e soffre in modo smisurato e devastante.
S. non fa altro che ripetere di essere una donna retta, che non potrebbe mai fare alcune cose che una moltitudine di persone fanno (non necessariamente perché immorali o prive di valori!). Questa sua virtù è appunto prima carta d'identità e poi passaporto. Di fatto si tratta di integralismo, ovvero di una forma esasperata di amore per sé stessi che rende impossibile qualsiasi forma di amore per gli altri.
Capita che S. si trovi davanti, in modo ovviamente del tutto imprevedibile (imprevedibile: questa è un parola importante, un concetto importante), a dover compiere una scelta impossibile tra un suo sentimento imperioso e la sua rinuncia. Aderire al sentimento imperioso la porterebbe ineluttabilmente a negare quella sua virtù, ragion d'essere sbandierata; la obbligherebbe a fare i conti con l'intransigenza mascherata da valore imprescindibile. Ma rinunciare significherebbe un dolore insopportabile, che il buco nero non riesce ad inghiottire, un dolore mortifero.
Veniamo al punto: è una questione di vita o di morte, senza metafore: vita-vita o morte-morte. A questa visione radicale che giustifica da sempre la legge del più forte, si deve opporre un antieroismo genuino, perché l'antieroe è l'unico individuo sociale e che si riconosce uguale agli altri.
Vorrei dire a S. che per mangiare bisogna darsi in pasto. E questo baratto è di per sé un valore.
Curiosamente (ma non proprio) ritrovo questa postura virtuosa (e quindi prevaricante) anche in F., che mi torna utile per allargare il discorso anche agli uomini, senza toccare però il criterio di ruolo, che qui funziona come etichetta, ovvero mezzo di riconoscimento sociale - non questione esistenziale, insomma.
F. ha frequentato in gioventù il mondo cattolico militante, aderendovi in modo plastico ed acritico, perché era giovane, perché era un modo per essere qualcuno di ben definito, per credere in qualcosa senza farsi troppe domande, per essere in qualche modo eroico.
Imprevedibilmente (!) F. scopre un giorno che quel mondo apparentemente paradigmatico viveva di doppie verità. L'intransigenza dichiarata non corrispondeva al vissuto privato. Con le armi spuntate F. (come S.) ha elaborato un disprezzo profondo per il genere umano, tuttavia caratterizzato e classificato, una top ten che vede nell'ordine al primo posto le donne (perché F. è un uomo), seguite dai preti, dalle madri (simbolo di amore ipocrita e di ruolo irraggiungibile), dagli idealisti, dai retorici, e via così. Il buco nero dell'ego ha cominciato a risucchiare tutto, come unico sistema energetico affidabile. Anche F. si è fatto personaggio di sé stesso, unico eroe possibile contro l'alterità incomprensibile, incoerente, inaffidabile.
Anche F. ha un sapere, è un ottimo scienziato, brillante e sufficientemente riconosciuto, anche F. interpreta la realtà e l'alterità con quell'unica chiave che ritiene di conoscere quanto basta per farne un dogma.
S. e F. sono eroi autistici, autogestiti ed immiscibili.
Sia chiaro, non è il sapere la trappola, come non lo è la fede, che sono invece l'energia rinnovabile di qualsiasi progetto umano. Piuttosto ricordiamo, come ammoniva Bourdieu, che il sapere non deve farsi elitismo, non deve stare chiuso nella torre d'avorio, e che la fede non è una forma elegante di narcisismo.
Domande:
- esistenza o coesistenza?
- l'esistenza consapevole ha senso se non si estroflette?
- la compassione, o il suo termine aggiornato condivisione, si limitano al bar dello sport o all'esercizio intellettuale di una morale manipolatoria?
- fino a che punto (voler) governare l'imprevedibilità?
- l'eroe patisce ma non compatisce, per poi essere compatito: ma abbiamo bisogno di questa perversione?
<< Home