17.5.12

Tanti topini rosa

Nietzsche è morto. Questa è anche un’affermazione tautologica.
Non è morto di morte naturale, in natura era quasi morto, ma non in modo definitivo.
Non saltava più, neanche sulla poltrona. Non si spostava neanche in casa, il suo raggio di azione era di un metro all’incirca, dalle ciotole con acqua e crocchette e cassetta - dove non riusciva neanche più ed entrare - e l’ingresso.
Quando gli passavo vicino, se lo sfioravo, cadeva. Lui che avevo conosciuto leone, austero, un po’ antipatico, molto felino, un bellissimo manto lungo per 11 kg di peso, ora ne pesava meno di 4.
Per questo dico che era quasi morto e il quasi fa tutta la differenza.

I nostri ultimi sei mesi sono stati difficili. Sempre più spesso mi svegliavo con l’incubo di dover cominciare a pulire prima di poter fare qualsiasi cosa, per non trasportare i suoi liquami in tutta casa.

 Poi, dopo l’insofferenza, quando mi mettevo davanti alla decisione: il mio tempo contro il tuo tempo, non decidevo niente, esattamente per la stessa ragione per cui ora lo racconto. Non per amore, non per pena e neanche per paura. Ma perché non sapevo cosa significava realmente staccargli la spina.

Avevo, come ancora ho adesso, una strana polvere nel cervello, tipo borotalco, polvere appiccicosa e impalpabile che significa semplicemente: non ho gli elementi per ragionare su questa cosa.
La cosa è l’eutanasia, sulla quale ho ragionato molto spesso, con interesse ed empatia, anche perché è un argomento di attualità.

Quando ho ragionato così, diciamo speculando intellettualmente, la mia posizione era, ed è!, chiarissima. È una scelta da rispettare, da sostenere, fatte salve tutte le ovvie cautele di ogni singolo caso. Non cambio idea.
Ma fare l’iniezione letale a Nietzsche ha smosso altri neuroni, altri spazi che ho dentro, a cui non so dare un nome, e come ho scritto altrove, senza un nome la cosa, qualsiasi cosa, non si può pensare e quindi non si può conoscere e poi riconoscere.

Ho deciso io, per lui. Questo mi pesa molto, ma non è questo che mi annebbia. So benissimo che ogni nostra decisione si tramuta in un ordine imposto agli altri, perché anche se la rifiutano, essa comporta comunque una reazione, se non un’azione, che è conseguenza e non scelta primaria.

La nebbia ha molto a che vedere con le coordinate spazio-temporali.
Lunedì alle 17,30, non domenica alle 22.
Nella copertina del veterinario, non sotto le ruote di una macchina e neanche sotto un letto.

Il veterinario con amorevole determinazione mi ha chiesto se volevo rimanere o andare.
Voglio rimanere, perché mi volevo punire, il cazzutissimo “mi prendo le mie responsabilità” (altra copertina autoreferenziale, molto liscivante).
Per Nietzsche non ha fatto molta differenza, non lo dico per cinismo ma perché lo conosco bene, lui non ha mai amato farsi coccolare, prendere in braccio, insomma tutte quelle manfrine intollerabili per un vero leone.
È stata l’unica volta in cui l’ho potuto tenere in braccio per 20 minuti, accarezzarlo, lui che non aveva più forza per divincolarsi è stato lì, lasciandomi credere che ci stava bene in braccio a me. Lui non aveva paura di niente, non sono state le mie carezze a tranquillizzarlo.
Si è addormentato, prima. Prima dell’altra iniezione.
E mentre lentamente partiva nel buio del sonno indotto, l’infermiera del veterinario ha detto la cosa più bella che ho sentito da molto tempo/spazio in qua:
"ecco, ora sta vedendo tanti, tanti topini ... rosa".

Ciao kats superkats inutilkats chenonserviaunkats.