29.5.12

Primavera digitale

Salone del libro di Torino 2012

La premessa d’obbligo, anche se può apparire ridondante, è che parlerò qui del mio salone, e non può essere che così data l’ingente mole di proposte, incontri, ospiti e sollecitazioni tra i quali si deve operare una scelta, molto spesso dolorosa e dagli esiti incerti. 

Il tema di quest’anno era « PRIMAVERA DIGITALE », con tutte le implicazioni che i due termini insieme hanno nella realtà attuale e che li rendono più che mai propulsivi. Perché la primavera araba si è servita di fatto (o è stata possibile ?) dei nuovi mezzi di comunicazione e prima fra tutti la rete.  Intorno a questo aspetto, e fino a spingere l’analisi molto oltre nel dettaglio disciplinare, ho ascoltato le conferenze più interessanti.

Così la conferenza « La mente ai tempi del computer » di Raffaele Simone, incalzato dalla ottima Franca D’Agostini,  ha tentato di tracciare una succinta mappa delle problematiche a partire dal fatto che la nascita del digitale si configura come un’autentica rivoluzione, che fa seguito alla nascita della scrittura e poi a quella della stampa.
Per l’acquisizione di informazioni, per il loro trattamento e per i processi cognitivi che ne conseguono, si tratta solo di un mero cambio di supporto o c’è altro?
Per Simone non si tratta solo di un nuovo supporto perché c’è creazione di nuove funzioni a vari livelli, secondo il principio dell’esattamento (Gould e Vrba ,1982).

Tornerò su questi aspetti prettamente linguistici parlando della conferenza di Andrea Moro.
Linguisti e neuroscienziati infatti non concordano necessariamente sulla risposta da dare, dividendosi, molto grosso modo, tra coloro che ritengono il linguaggio un fatto convenzionale, e quindi un’abilità che si è evoluta nel tempo e biologicamente (per es. Lennerberg), e coloro che propendono per la teoria della grammatica universale, che pone la struttura del linguaggio (non le lingue!) come evento comune al genere umano e non evolutivo (per es. Jerne, Chomsky).

Quali sono le ricadute immediate della rivoluzione digitale? Per Simone i nuovi media sono grandi fattori di dispersione e sconcentrazione. La forma di sapere che offrono è da un lato ingannevole e dall’altro così destrutturata da annichilire ab origine il suo potenziale informativo.

Ingannevole perché il web dà libertà ma non democrazia. E la libertà appare in quanto spazio quasi sconfinato per un narcisismo primitivo.
Se è vero che è stato possibile dare vita a movimenti di massa, è parimenti vero che il movimento non è una forma di democrazia, quanto piuttosto il suo contrario (vedi lo studio delle forme di dispotismo analizzate da Montesquieu e la sua deduzione che anche l’uguaglianza estrema si possa configurare come tale).

Se poi è vero che il movimento risponde ad un’esigenza di democrazia diretta, che emerge essenzialmente  per l’insofferenza alla forma partito rivelatasi fallace, esso non è strutturato; una delle evidenze più pericolose di questa assenza di organizzazione è ad esempio che sovente si legge un articolo ma non se ne conosce l’autore, né le fonti, oppure se si organizza una riunione non si sappia mai chi l’ha organizzata, insomma chi sia responsabile di cosa. E per Simone è grave sia non poter misurare la qualità del sapere che rispondere all’appello all’adunanza di un’entità ignota.
 E in effetti messa così sembra che questa rivoluzione sia effimera e vagamente qualunquista.

Spesso ho l’impressione che delle rivoluzioni, nella loro immediatezza, ma più gravemente anche a digestione secolare avvenuta, si abbia solo una grande paura celata dentro un bisogno imperioso di dare loro una definizione, una collocazione, un posto nello scaffale con una bella etichetta (limitante, settorializzante, riduttiva).
È sempre la solita zuppa: non è possibile definire qualcosa adoperando un metodo affidabile se ci si trova al suo interno.

Dunque caro Simone ha ragione D’Agostini quando ti risponde che esistono dei problemi, primo fra tutti il problema della rappresentanza in democrazia, e
che a questo si deve dare risposta e non sarà facile.
Come diceva Foucault, serve ascendente in politica ed ha ascendente chi dice la verità. Qui bisognerebbe precisare cosa sia la verità, ma non lo faremo perché non è la sede.

E come diceva Simone Weil nel « Manifesto per l’abolizione dei partiti politici », la teoria politica (rappresentanza partitica) si trasforma in una ragione di potere e di obbedienza, come accade per esempio nella Chiesa.
La democrazia diretta va intesa come democrazia partecipativa e deliberativa e fin qui ha fallito (probabilmente) perché legata ai vecchi media.

I nuovi media hanno creato per il momento movimentismo perché manca la dottrina, l’avanguardia rivoluzionaria, gli intellettuali insomma.  I quali, dico io, non rivoluzionano perché per la prima volta nella storia sono stati abilmente assimilati (e disinnescati) dal potere istituito piuttosto che essere messi all’indice, al rogo o al martirio e farne eroi postumi da rispolverare alla buona occasione.
Paradossalmente quindi questa rivoluzione o rimarrà incompiuta o sarà una rivoluzione totale, ovvero che dovrà fare erba bruciata di ogni cosa che la preceda per incapacità intrinseca di saper elaborare intellettualmente.

Sulla questione della qualità del sapere Simone ha ragione, ma il problema del cretino digitale non nasce con internet o Wikipedia.
Ha già provveduto all’uopo la tecnologia asservita al mercato: la prima volta che ho preso in mano un computer non riuscivo ad usarlo perché la mia struttura mentale voleva sapere prima come era fatto (dentro), impedendomi di affrontarlo come un qualsiasi elettrodomestico on/off.
E ci è voluto tempo a chi mi stava vicino per convincermi che non era necessario che sapessi come era fatto dentro per usarlo.
Che è la stessa logica dello sfruttamento di qualsiasi cosa, dalla terra agli esseri umani. Perché se sai come sono fatti dentro, non li sfrutti a spolparli.
E poi è la stessa logica per cui non li ami: quando si rompono, li butti (con la terra, la vedo dura ...), perché non ci hai messo niente di tuo, non c’è investimento. Ed è la stessa ragione per cui più butti più compri, e via così, in perfetta logica iperliberista e ipermercantile.

Le questioni della qualità e della dispersione inerenti il nuovo medium che è la rete sono state affrontate anche da Fernando Savater nella Lectio Magistralis intitolata “L’etica della creazione intellettuale - Una riflessione nell’epoca di internet”. La creazione intellettuale è una specificità umana che si serve di due caratteristiche: la capacità di percezione della realtà e la capacità di immaginazione.  La percezione ci tiene con i piedi saldi a terra, nell’esperienza del mondo, mentre l’immaginazione ce ne allontana.  Il problema etico è che se rimaniamo attaccati alle percezioni perdiamo la verità. Per Savater l’immaginazione  è un’altra forma della realtà. Se quando parliamo di realtà virtuale intendiamo semplicemente qualcosa di distante, allora la creazione intellettuale è sempre stata virtuale, perché si serve dell’immaginazione e ancor meglio dell’astrazione come processi assolutamente biologici ma che consentono di pensare e concettualizzare la forma del reale. L’intelletto, grazie all’immaginazione e all’astrazione, separa ciò che nella realtà sta congiunto (per esempio, un fatto, un episodio) ed è unico ed irripetibile, per renderlo molteplice e ripetibile e questo allo scopo di capirlo.
La creazione intellettuale richiede quindi coraggio, perché impone tra l’altro di pensare la morte, ovvero la nostra finitudine, l’atto naturale ed immanente rispetto all’astrazione dell’intelletto.  Che è quello che permette a Spinoza di spiegare il nostro amore intellettuale per l’eterno. Il riscatto al pensiero della finitudine lo offre la poesia (v. Maria Zambrano, “Filosofia e poesia”)    perché utilizzando il medesimo sistema di astrazione , studia  la realtà che è ma anche quella che non è. In questo senso essa svolge una funzione pietosa.
Le tematiche di fondo della creazione intellettuale sono insomma immutate perché internet in questa speculazione rappresenta solo un mezzo, un’esperienza collettiva in cui ogni individuo porta la sua esperienza.
Il problema è semmai nella capacità di distrazione della rete.  Gli stimoli sono talmente numerosi da creare una continua distrazione allorché sappiamo che imparare richiede invece un certo tempo. In questo senso la rete sta cambiando la nostra capacità di creazione intellettuale.

Mi sentirei di aggiungere che il nuovo medium, proprio per via della sua amichevolezza e capillarità, là dove toglie, un po’ restituisce. Perché se è vero che per andare a caccia dell’informazione giusta, “autoriale”, qualitativa e qualificata, bisogna saperlo fare e disporre quindi ex ante della capacità di farlo (acquisita con lo studio o nell’ambiente in cui si vive, lasciando pertanto immutato il divario di partenza che risulta da come e dove si nasce), è anche vero che l’immensità dell’informazione disponibile agevola il lavoro del caso, funzionando esattamente come uno stimolo ex post, a prescindere.

Mi preme però ora soffermarmi sulla Lectio Magistralis di Andrea MoroVisioni del linguaggio attraverso i secoli”. Andrea è giovane (rispetto agli altri) e vivaddio si vede nella sua esposizione, snella, scattante, densissima, impossibile riportarla senza farle (più di una) ingiustizia, oltre a quella della mia incompetenza in materia. Parla a mitraglietta, stile Mentana dei tempi che furono, e per fortuna è attrezzato di diapositive che ho fotografato e mi hanno aiutato non poco a rimettere in ordine i frenetici appunti.
[Quest’anno gli appunti li ho presi con il pad e mi è costata fatica essere efficiente rispetto all’uso ormai addomesticatissimo della penna e delle aggiunte, ghirigori e commenti estemporanei che ti consente fino all’ultimo millimetro di carta disponibile. Il pad ti impone ordine, pochi errori di battitura, perché nelle cose complicate se sbagli pure poi non ricostruisci più, e la logica la devi ritrovare dopo. In realtà penso solo di dovermi abituare, perché per contro ti ritrovi tutto sul PC, buono per essere tagliato e ripulito. E poi il pad fa le foto, con cui posso mettere le facce su questi riassunti, e non è poca cosa, le facce sono importanti.]

È stata sicuramente la conferenza più stimolante di quest’anno e a dispetto del titolo che la lasciava presagire stesa comodamente su un excursus storico, l’approccio filologico è tutto mirato a sostenere quello scientifico (metodo), con qualche sapiente strizzatina d’occhio a curiosità deliziose come quella della distribuzione dei tasti sulle nostre tastiere.
Le quali recano così curiosamente distribuite le lettere non per criteri di frequenza d’uso né per ragioni di immediatezza, che le vorrebbero ordinatamente disposte in ordine alfabetico. In realtà le ragioni sono meccaniche, perché nelle prime macchine da scrivere, proprio per via della frequenza di battitura di alcune lettere, i martelletti si impicciavano tra loro. Adoro la rivincita della materia sulla logica!

L’informazione stravolgente e fastidiosa è che il nostro cervello è capace di reagire a strutture linguistiche esistenti, ovvero che abbiano un loro senso anche se il proprietario del cervello non le conosce affatto, ma rimane muto, sordo e immobile di fronte ad un linguaggio inventato e privo di senso.

Nel primo caso le evidenze sperimentali mostrano che l’area di Broca (area del cervello deputata a questi stimoli) si attiva, mentre nel secondo rimane completamente inattiva. Questo, sulla scia dei lavori svolti da Noam Chomski, fa affermare che esista una sintassi del linguaggio che precede l’apprendimento e che quindi la grammatica non sia solo convenzionale. Chomski ha inoltre teorizzato la capacità del cervello di produrre strutture inscatolate. Si può partire osservando ad esempio, come fecero Arnauld e Lancelot, che gli uomini sono naturalmente portati ad abbreviare le loro espressioni.

Di questo in effetti abbiamo prova più che mai tangibile nel mondo in cui viviamo, tutto improntato alla velocità e alla sintesi, dove sembra quasi naturale che una lingua sintetica e dotata di parole corte come l’inglese abbia la meglio. Sulla questione dell’inglese ci sono anche altre ragioni meno attinenti alla logica e alla sociologia e molto più legate al potere, però questo ora non c’entra.

Questa tendenza naturale all’abbreviazione e quindi all’inscatolazione - una frase dentro l’altra invece che tante frasi separate che obbligherebbero a ripetere soggetti e oggetti - trova una sua rappresentazione nel principio di autosimilarità ed il suo corrispettivo matematico nella struttura frattale.  In questo modo la sintassi si apre ad una quantità infinita di strutture ed in questo senso costituirebbe l’ossatura di tutte e solo le lingue umane. Un’intuizione postulata già da Ruggero Bacone:
"La grammatica è una e una sola in tutte le lingue secondo la sua sostanza, anche se possono esserci della variazioni accidentali."


Ho fatto volutamente il percorso a ritroso rispetto alla presentazione di Moro perché a conti fatti lui voleva arrivare qui da dove ha cominciato, da questa frase di Marco Terenzio Varrone che postula qualcosa che va contro larga parte di tutto quello che fino ad oggi la scienza ha prodotto in osservanza alla teoria dell’evoluzione darwiniana.


Chiamo “natura” il caso nel quale tutti noi non chiediamo come declinare un nome dato  [...] ma lo decliniamo da soli”.

Tuttavia Moro non si situa neanche definitivamente da questa parte perché le due visioni possono essere conciliate con quello che chiamerei un principio di economia utilizzando l’esempio fornito proprio dall’autore: l’occhio umano è sensibile solo ad una ristretta gamma di onde elettromagnetiche. Non è implausibile pensare che una maggiore sensibilità potrebbe portare ad un sovraccarico. E non è neanche implausibile che molte delle potenziali abilità dei nostri organi non si siano sviluppate perché non utili. Rimane comunque in questa proposta che il linguaggio sia né più né meno che un organo funzionale, alloggiato nel cervello, ma preesistente a qualsiasi forma di sapere.

Nonostante ogni anno io faccia grande attenzione a non infilarmi nelle sale dove sul palco parlano personaggi molto mediatizzati, è per Luciano Canfora che mi sono collocata in sala rossa, dove sul palco è arrivato, pure in ritardo, Matteo Renzi, e da dove sono uscita prima della fine per insofferenza fisica e psichica alle modalità espositive e alla sostanza (già, quale sostanza?) di questi dibattiti. Si doveva discutere di “Politica e democrazia al tempo del web” e il confronto poteva prendere delle piste interessanti che ovviamente non ha preso e quindi è probabile che io sia entrata con l’intento di trovare ulteriori conferme ai miei pregiudizi. Può essere, fatto sta che è andata così perché ho ascoltato la fiera della banalità, ho sentito il trito e il ritrito, il buonsensismo concupiscente di anime belle da tranquillizzare con la “forza buona” .... sì, sì, ma i contenuti? Il Renzi ha detto più o meno nell’ordine: bisogna fare la differenza tra comunicazione e informazione, la rete non rappresenta tutti, ma siccome fa molto rumore come Grillo, allora sembra più importante di quello che è, Grillo prima di fare l’arruffapopolo spaccava i computer ... . Canfora ha provato a dire qualcosa di più interessante interrogandosi su quale tipo di democrazia possa produrre una tecnica come la rete, in quanto lo strumento stesso sopperisce alla partecipazione.

Devo constatare, con sempre crescente tristezza, che la rete fa proprio paura a tutti. E probabilmente questo basta per ritenerla davvero rivoluzionaria.

Tra le delusioni devo anche citare la presentazione del libro “Ira e indignazione “ di Remo Bodei, che ha tutta l’aria di essere una marchetta editoriale.  Dell’ora trascorsa a disquisire sulla differenza tra ira e odio e indignazione, chi è buono e chi è cattivo, mi resta l’osservazione dell’autore sul fatto che oggi ira e indignazione, che in passato hanno mosso rivoluzioni o sostenuto ideologie, sono diventate una forma di vittimismo, a riprova dello stato di depressione sociale in cui ci troviamo. E uno dovrebbe comprarci un libro? Mah.

Buone notizie invece sul fronte ecoambientalista, ben strutturato, rigoroso, scientifico, propositivo e per nulla pedante. A parte la simpatia che nutro per Luca Mercalli, che a sorpresa  dichiara di avere nostalgia del passato solo per la perduta spiritualità e che questo causa la nostra infelicità, Antonio Pascale ha elencato dati e soprattutto le risorse disponibili: amido (ma non abbiamo una tecnologia efficace per convertirlo), solare (stessa situazione, ma c’è allo studio una batteria), solare dinamico (ma servono superconduttori per trasportare l’energia), nucleare (...), idrogeno (difficile da fare), e denunciato la mancata ricerca pubblica, che è l’unica che potrebbe offrire le necessarie garanzie per investire nella modificazione genetica. Eh sì, bisognerà rassegnarsi ad affrontarla questa cosa, visto che da 2 miliardi di persone che eravamo nel 1966, oggi (2011) siamo 7 miliardi ...
Una boccata d’ossigeno poi con Ermete Realacci che ha inanellato alcune storie di successo italiane rispettose dell’ambiente e del buon senso (sì, stavolta sì!!!), come la riconversione di un’azienda che faceva TV bianco e nero ed oggi fabbrica inverter per le rinnovabili oppure l’esportazione di vino, per 4 miliardi, frutto del cambio di strategia in vigore fino a 15 anni fa: da tanto a bassa qualità a poco ad alta qualità, trasformazione possibile anche per via della molteplicità dei vitigni di cui dispone il nostro territorio e che ha le sue radici nella storia, a partire dagli Etruschi.

Un po’ lenta e poco passionale è stata invece la Lectio Magistralis di Carlo OssolaCome letizia per pupilla viva”, ovvero una nuova lettura di Dante che segue la linea del Dante dei poeti, e una nuova brillante traduzione della Divina Commedia, legata d un bisogno di intransigenza. Ossola invita a liberare la Commedia dal realismo introdotto dalla critica romantica e a non deteologizzarla. Si tratta di un percorso iniziatico, come sosteneva Pound, e di un’epica collettiva, che troverebbe una nuova e buona collocazione proprio su una scena teatrale.  Io sono semplice e da quando la Divina Commedia l’ho rivissuta con Roberto Benigni, rivissuta col cuore palpitante, gli odori e le puzze, la pienezza e la trasfigurazione elegiaca, fino a quell’ultimo trentatreesimo canto del Paradiso che è la gloria dell’Uomo, dopo averla vissuta appieno con la passione e gli scarti di umanità - ivi compresi i miei -, da Dante ho tratto il massimo della gioia e sono contenta così.

E comunque Dante tira, altro che burlesque e scollature: entrare in sala, fare la coda prima (quasi per tutte le conferenze) è un atto di resistenza fisica che col virtuale vagheggiato nel titolo del salone ha molto poco a che vedere. Ma mica è una cosaccia, quasi quasi mi cominciava a mancare lo sgomitare, l’ammasso pance contro schiene, la bramosia del posto a sedere che in realtà è la carica di adrenalina che hai in attesa di ascoltare cose belle e nuove e interessanti, che poi se non ti siedi non è molto importante ...

 
Su “Scrittura e traduzione” hanno chiacchierato Gianrico Carofiglio e Ilide Carmignani senza grande incisività. Io mi chiedo perché Carofiglio abbia smesso di fare il magistrato per mettersi a scrivere. Magari è bravo, non so, ho smesso da tempo di leggere romanzi (per mancanza di tempo, devo fare scelte...) e se devo leggerne uno preferisco colmare lacune sui classici; probabilmente la “Manomissione delle parole” dovrebbe interessarmi per varie ragioni, ma rimango titubante. E poi perché uno come lui non è rimasto in quella trincea fondamentale? Vabbé, forse dovrei farmi gli affari miei. Si merita un mini video, visto che il pad li fa.


Lodevole iniziativa quella di presentare un “Manuale di dissuasione dalla scrittura creativa” di Paolo Bianchi. Sono molto contenta che il baricchismo intraprenda la curva discendente, insieme al marketing (illusorio) del talento. Ho sentito cose che ho scritto due anni fa e in un clima semigoliardico, con domande del pubblico di rara profondità come “cosa ha cambiato internet nella scrittura” e risposte di ancora più spaventevole sprofondità tipo “c’è gente che copia da internet e poi pubblica come fosse roba sua”, dando di ciò la colpa ovviamente a internet (io d’ora in poi la rete la chiamerò il Mostro), come se il plagio e la copiatura non fossero sempre esistiti. Ohibò. Così non va il mondo.

L’incontro previsto con Tahar Ben Jalloun è stato annullato all’ultimo momento, e questa è cosa gravissima.
Alla conferenza di Vittorio Sgarbi  su “L’ombra del divino nell’arte contemporanea” non sono andata per le ragioni sopra esposte, anche se probabilmente meritava. Ma non l’ho rimpianta troppo, avendo incontrato il nostro nel corridoio che porta alla sala gialla mentre si prestava a farsi fotografare con chiunque: suore, nonne, figlie, nipoti e mamme, la bava lunga, ed esangue, del priapismo di Stato. Cosa direbbe Cetto? ‘Ntu culu.

Interessante invece la conferenza di Paolo Crepet e Vittoriano Solazzi, presidente del consiglio regionale Marche, su “Come cambiano i luoghi della comunicazione umana”. Crepet è almeno limpido, chiaro, incisivo ed onesto intellettualmente. Il rischio del tempo dedicato al computer e alla rete è l’illusione che tutto sia semplice e a portata di mano, una sorta di cultura della comodità, che rallenta i processi cognitivi. Delegare la fatica del pensare al PC è pericoloso. Questo rallentamento, questa mancanza di presa diretta può essere anche una delle cause della sempre minore passionalità dei giovani. Crepet si preoccupa del fatto che i giovani conoscano sempre meno la passione intesa come trasporto incontenibile, furia, briglie sciolte, senza averne paura. Così che, restando nell’ignoto, una volta agita scappa di mano.  Per contro la tecnologia ha bisogno di creatività! E gli schermi dovrebbero essere utilizzati non per fare il download ma per tanti upload carichi di idee.
Il disinteresse per l’emotività degli altri provoca il ripiego solitario sullo schermo. Siamo diventati tutti un po’ autistici, nessuno ti chiede più come stai perché non vuole ascoltare la risposta. Mentre la tecnologia può e dovrebbe essere usata per sondare l’anima e non per nasconderla. Un consiglio: far parlare i ragazzi del loro futuro e insegnargli a gettare il sasso oltre. E io condivido tutto e ringrazio.

Il presidente dell’autorità garante per la protezione dei dati e la riservatezza, Francesco Pizzetti, ha fatto una Lectio Magistralis su “Controllo dei dati e diritto alla riservatezza” di una tristezza ed inutilità preoccupanti. Tentando un colpaccio di avvio con un riferimento a 2001 Odissea nello spazio, su cui c’è stato un fremito della sala che si apprestava  a goderne lungamente, Pizzetti ha iniziato una lunga storia dell’uomo che da quando esiste lascia informazioni e che da sempre cerca di mettere una barriera sul loro disvelamento. È andato avanti così per un’ora, mentre io aspettavo invano di vedere attaccata la questione dal punto di vista tecnico e giuridico, sulle difficoltà di generalizzare questo tipo di norme, alla base delle quali attendevo una risposta formale su definizioni date per scontate come “pubblico interesse”. E dire che l’ha citato e stracitato il “pubblico interesse” ma certo è che se non se ne dà una definizione condivisa, su quali linee guida sarà mai possibile legiferare sulla riservatezza? Domande rimaste senza risposta. Il nulla fritto è uno dei piatti internazionali più diffusi e apparentemente digesti forse perché davvero a buon mercato.

Mi sono molto divertita a sentir litigare due filosofi: Maurizio Ferraris e Pier Aldo Rovatti intorno alla fine, probabile, del pensiero debole trasformatosi, secondo Ferraris, nel nuovo realismo e sulla contestazione di Rovatti di una qualsiasi forma di novità introdotta dal nuovo realismo, che si iscrive piuttosto nella scia del postmodernismo. Dialettica intrigante, sostanza poca. Titolo della conferenza “Chi ha paura del realismo? Nuovo realismo e postmoderno nella filosofia globalizzata”.

Concludo con l’interessante esame dei documenti strategici USA declassificati sui quali Maurizio Molinari ha scritto un libro edito da Rizzoli. Da notare che in Italia questo tipo di prassi non esiste e che i più recenti documenti segreti pubblicati risalgono al 1953! In assenza di una normativa sui documenti delle ambasciate, la ricerca di dati e informazioni per (ri)scrivere la storia è un’attività di ricerca certosina che va dagli archivi dei partiti e fondazioni ai diari personali e agli scritti privati. Emerge l’urgenza di una disciplina per queste fonti, anche se l’autore avverte scrupolosamente che la documentazione non è tutto perché ha bisogno di essere contestualizzata.


17.5.12

Tanti topini rosa

Nietzsche è morto. Questa è anche un’affermazione tautologica.
Non è morto di morte naturale, in natura era quasi morto, ma non in modo definitivo.
Non saltava più, neanche sulla poltrona. Non si spostava neanche in casa, il suo raggio di azione era di un metro all’incirca, dalle ciotole con acqua e crocchette e cassetta - dove non riusciva neanche più ed entrare - e l’ingresso.
Quando gli passavo vicino, se lo sfioravo, cadeva. Lui che avevo conosciuto leone, austero, un po’ antipatico, molto felino, un bellissimo manto lungo per 11 kg di peso, ora ne pesava meno di 4.
Per questo dico che era quasi morto e il quasi fa tutta la differenza.

I nostri ultimi sei mesi sono stati difficili. Sempre più spesso mi svegliavo con l’incubo di dover cominciare a pulire prima di poter fare qualsiasi cosa, per non trasportare i suoi liquami in tutta casa.

 Poi, dopo l’insofferenza, quando mi mettevo davanti alla decisione: il mio tempo contro il tuo tempo, non decidevo niente, esattamente per la stessa ragione per cui ora lo racconto. Non per amore, non per pena e neanche per paura. Ma perché non sapevo cosa significava realmente staccargli la spina.

Avevo, come ancora ho adesso, una strana polvere nel cervello, tipo borotalco, polvere appiccicosa e impalpabile che significa semplicemente: non ho gli elementi per ragionare su questa cosa.
La cosa è l’eutanasia, sulla quale ho ragionato molto spesso, con interesse ed empatia, anche perché è un argomento di attualità.

Quando ho ragionato così, diciamo speculando intellettualmente, la mia posizione era, ed è!, chiarissima. È una scelta da rispettare, da sostenere, fatte salve tutte le ovvie cautele di ogni singolo caso. Non cambio idea.
Ma fare l’iniezione letale a Nietzsche ha smosso altri neuroni, altri spazi che ho dentro, a cui non so dare un nome, e come ho scritto altrove, senza un nome la cosa, qualsiasi cosa, non si può pensare e quindi non si può conoscere e poi riconoscere.

Ho deciso io, per lui. Questo mi pesa molto, ma non è questo che mi annebbia. So benissimo che ogni nostra decisione si tramuta in un ordine imposto agli altri, perché anche se la rifiutano, essa comporta comunque una reazione, se non un’azione, che è conseguenza e non scelta primaria.

La nebbia ha molto a che vedere con le coordinate spazio-temporali.
Lunedì alle 17,30, non domenica alle 22.
Nella copertina del veterinario, non sotto le ruote di una macchina e neanche sotto un letto.

Il veterinario con amorevole determinazione mi ha chiesto se volevo rimanere o andare.
Voglio rimanere, perché mi volevo punire, il cazzutissimo “mi prendo le mie responsabilità” (altra copertina autoreferenziale, molto liscivante).
Per Nietzsche non ha fatto molta differenza, non lo dico per cinismo ma perché lo conosco bene, lui non ha mai amato farsi coccolare, prendere in braccio, insomma tutte quelle manfrine intollerabili per un vero leone.
È stata l’unica volta in cui l’ho potuto tenere in braccio per 20 minuti, accarezzarlo, lui che non aveva più forza per divincolarsi è stato lì, lasciandomi credere che ci stava bene in braccio a me. Lui non aveva paura di niente, non sono state le mie carezze a tranquillizzarlo.
Si è addormentato, prima. Prima dell’altra iniezione.
E mentre lentamente partiva nel buio del sonno indotto, l’infermiera del veterinario ha detto la cosa più bella che ho sentito da molto tempo/spazio in qua:
"ecco, ora sta vedendo tanti, tanti topini ... rosa".

Ciao kats superkats inutilkats chenonserviaunkats.