26.2.04

I regali di Adorno

Cosa dice Adorno della deriva presa dal gesto del "dono", soppiantato (malamente) dalla beneficienza. Bé, ci sarebbe da dire, ma mi pare una buona considerazione per ragionare sull'idea di "scambio" e sulla "disattenzione".

"Gli uomini disapprendono l'arte del dono. C'è qualcosa di assurdo e di incredibile nella violazione del principio di scambio; spesso anche i bambini squadrano diffidenti il donatore, come se il regalo non fosse che un trucco per vedere spazzole e sapone. In compenso si esercita la chariry, la beneficienza amministrata, che tampona programmaticamente le ferite visibili della società. [...] La vera felicità del dono è tutta nell'immaginazione della felicità del destinatario: e ciò significa scegliere, impiegare tempo, uscire dai propri binari, pensare l'altro come un soggetto: il contrario della smemoratezza. Di tutto ciò quasi nessuno più è capace. Nel migliore dei casi uno regala ciò che desidererebbe per sé, ma di qualità leggermente inferiore. La decadenza del dono si esprime nella penosa invenzione degli articoli da regalo, che presuppongono già che non si sappia cosa regalare, perché in realtà noon si ha nessuna voglia di farlo. [...] Lo stesso vale per la riserva della sostituzione, che praticamente significa: ecco qui il tuo regalo, fanne quello che vuoi; se non ti va, per me è lo stesso; prenditi qualcosa in cambio. Rispetto all'imbarazzo dei soliti regali, questa pura fungibilità è ancora relativamente più umana, in quanto almeno consente all'altro di regalarsi quello che vuole: dove però siamo agli antipodi del dono."

4.2.04

Jean Paulhan: "Lettera a Jean Dubuffet"

1944, traduzione mia

"Caro Jean Dubuffet,

"Io, dipingere? diceva il pittore Mi Fei, state scherzando. Io canticchio la mia canzoncina - Io dipingere? diceva il pittore Tang-Po, volete ridere. Io scaldo la mia minestra. - Che posso farci? diceva Yu-k'o, appena ho bevuto del buon vino, dal mio fegato contento escono scogliere e bambù. Escono numerosi, e non posso fermarli."
Così escono numerosi gli sperduti sergenti di città ed i viaggiatori-di-metro nostalgici, gli spaventapasseri, le vacche e le terre incolte di Jean Dubuffet. E palesemente Jean Dubuffet non riesce a fermarli. Ma la pittura è fatta di persone che la guardano, così come di persone che la fanno. E per noi che la guardiamo, quegli omini e quelle bicocche pongono questioni talmente gravi che è opportuno fare qui un po' di storia sociale.

Quando ho cominciato, ero giovanissimo, a visitare mostre di pittura moderna ho visto molto presto che vi si incontravano due sorte di persone, di cui le une (davanti a Carrère o Renoir, suppongo) ridevano come matti, si battevano le cosce e davano segni, che riconoscevo benissimo, di grande gioia. Avrei detto di essere al circo, davanti all'ippopotamo o al tapiro. Io stavo dalla loro parte, le trovavo simpatiche. Mi sembrava che fosse naturale divertirsi. E che fosse più naturale che non conservare (come facevano le persone dell'altra specie) un'espressione cupa e parlare della levatura morale - davanti a Carrère - o della gioia di vivere - davanti a Renoir, o ancora di sezione aurea, e dipingere le cose come vengono pensate piuttosto che come vengono viste.
Perché quello che è divertente, se non appassionante, nella vita è vedere le cose e non pensarle affatto. Nessuna persona sensata immaginerebbe da sola l'ippopotamo, per esempio, con l'orecchio vibratile e le gocce di catrame che gli attraversano la pelle. Ma dopo averne visto uno si rimane sconvolti per qualche giorno, se non si è insensibili. Dunque ero dalla parte delle persone che ridevano. Più tardi scoprii altre cose.

Ovvero, che coloro che ridevano erano scontenti di ridere mentre le persone scure in volto erano soddisfatte di essere cupe. Questo mi parve più serio. Questo mi parve qualcosa che aveva l'aria di essere un errore del tutto generale.
Quando le persone allegre avevano finito di battersi le cosce e darsi gomitate, dicevano: "Ci hanno preso in giro. Non ci metterò più piede. Povera Francia."
Mentre le persone tristi dicevano: "Che anima! Bisognerà portarci tuo cognato. Ah! Jean Dolent aveva ragione di scrivere ...", perché il loro critico preferito, per di più, si chiamava Jean Dolent. E ha dato anche il suo nome a una strada. Ed io avevo l'impressione che si sbagliassero tutti e che avrebbe dovuto essere il contrario: le persone allegre avrebbero dovuto essere soddisfatte e quelle tristi scontente. Infine, che avrebbe dovuto esserci in tutto questo una sorta di accordo da stabilire tra loro, una scoperta da fare. Ma beninteso non osavo dirlo; e poiché è solo da pochi mesi che mi viene proposto di scrivere su grandi giornali, adesso ne approfitto.
Ne approfitto per difendermi, perché io in tutto questo, ah!, mi vergogno a dirlo, ovvero me ne vergognavo al momento, io sapevo che non era molto brillante quello che facevo; il fatto è che mi trovavo d'accordo con le persone tristi (perché alla fine vedevo effettivamente che avevano delle ragioni, che spiegavano le cose, che sapevano parlare di pittura). Ma questo non m'impediva anzitutto di divertirmi. Di ridere insieme alle persone che ridevano: di una signora che somigliava ad un elefante; di un cavallo che era salito su un tetto; di un'altra signora che si vedeva contemporaneamente di faccia e di profilo.
Ebbene: io ero contemporaneamente di faccia e di profilo, come quella signora: ridevo e trovavo tutto ciò molto bello. Mi divertivo, ma ero persuaso. Mi si chiederà come facessi. Ah! Non ne so più nulla, ma mi riusciva bene. Ed avevo torto, non c'è dubbio. E gli eventi, ad ogni nuova mostra, sembravano darmi sempre più torto. Perché i buoni pittori diventavano ogni giorno più severi, più rigorosi, magistrali. Con ogni evidenza, ne sapevano qualcosa.
Talvolta a loro bastava, per dimostrarlo, una semplice e piccola riga, un filo. Io tenevo duro. Alla fine sono stato ricompensato, perché è andata a finire che sono arrivati pittori di cui si poteva ridere senza offenderli, che accettavano di essere divertenti, e che erano altresì meravigliosi. I cui quadri non erano affatto un ministero, né un teorema, ma una sorta di compiacimento, qualche cosa simile ad una festa pubblica, una grande farsa. Mi sembra che sia il caso di Klee e forse anche di Campendonck (di cui conoscevo essenzialmente il nome). È il caso di Picasso (sia detto con la necessaria ammirazione). È singolarmente il caso di Jean Dubuffet. Che gioia! Naturalmente ero contento di avere ragione, o piuttosto di aver avuto ragione. Ma c'era ancora qualcos'altro, di più grave. Ed è che mi rendevo conto perfettamente di avere avuto ragione con il mondo intero; ed anche che sia normale, ed altresì, vorrei dire, umano, che l'arte ed in particolare la pittura siano una specie di festa o di divertimento e che per questo non cessino di essere ammirevoli.
Ci sono segreti di questo genere da ogni parte e non è sempre facile scoprirli. Per esempio, credo che un giorno riuscirò a guardare con gioia i vecchi quadri di un museo. Ma non ci sono ancora riuscito, inutile mentire. Invece so da qualche tempo come visitare una chiesa senza annoiarmi troppo. Appena entrati bisogna rimanere in piedi, senza muoversi, e guardare sempre dalla stessa parte. Tutto il valore di una chiesa sta nella grandezza di uno spazio, che colpisce tanto più se ci si trattiene dal percorrerlo. È come per le foreste, non bisogna mettersi subito ad attraversarle. Ci sono segreti di questo tipo da ogni parte, e ciascuno conserva i suoi, altrimenti non riuscirebbe troppo a vivere. Anche un articolo politico diventa interessante se accade di leggerlo in bagno, ed ancora più interessante se ha perso la testa e la coda, che bisogna tentare di reinventare. Ma ho detto abbastanza a questo proposito.
Quello che volevo dire è che Jean Dubuffet somiglia a quelle scoperte che cambiano la vita. Hai cercato a lungo un quadro che ti divertisse e che fosse al contempo della grande pittura. Ebbene, l'hai trovato, o piuttosto, Dubuffet l'ha trovato per noi, con una tale evidenza da eliminare ogni esitazione. Ma il segreto va oltre.

Quando eravamo piccoli ci dicevano che i pittori primitivi in realtà non capivano granché di pittura, ma essi amavano talmente la religione che si ostinavano comunque a dipingere. Ovviamente è vero esattamente il contrario.
I Primitivi se ne fregavano alquanto della religione. Se dipingevano angeli e vergini è perché glielo avevano ordinato. Ma era anche per far passare qualcos'altro. Perché essi avevano fatto una scoperta un po' difficile, un po' scioccante. Avevano scoperto che è pericoloso dipingere troppo bene; che i blu, gli ori e le perle finivano con l'essere troppo belli, troppo brillanti; che tutto ciò schiaccia la pittura, le toglie la sua ragion d'essere e la sua dignità. Alla loro epoca si erano per l'appunto appena inventati nuovi colori, più ricchi di altri, e nuove modalità di prospettiva. Nuove sezioni, più o meno auree. E loro si difendevano come potevano. Affermavano, a loro modo, che non c'è pittura che valga (né forse opera umana) senza qualche difetto. Ed è proprio questo quello che i grandi uomini hanno sempre saputo, in ogni epoca, quelli che hanno (come si dice) marcato la loro epoca. Gli inventori di cerimonie, di giochi d'acqua e di giardini francesi, ad esempio, sapevano benissimo ciò che ognuno avrebbe dovuto sapere: ossia che un giardino deve essere vasto e maestoso, deve dare contemporaneamente la sensazione di agio e d'ordine, di indipendenza e di maestà. Ma sapevano anche un'altra cosa che è mille volte più difficile da sapere (e in ogni caso da applicare), ovvero che un giardino, un gioco d'acqua o una cerimonia devono essere leggermente ridicoli; di un ridicolo abbastanza lieve, per far passare tutto il resto. Ciò che dico è molto chiaro, e piuttosto terra-terra. E non è così distante da ciò che i cristiani chiamavano il peccato originale. Per fare solo qualche esempio, è del tutto evidente che le case (sempre piuttosto tiepide e con un buon odore) dove appena entrati ci si vede accolti da sorrisi ed interrogati cortesemente sui propri gusti personali, ed improvvisamente circondati da graziose signore nude che non dicono nulla e smettono di muoversi perché le si possa guardare meglio, è certo che queste case rientrano nell'ordine dei giardini incantati o dei paradisi. Da lontano si potrebbe benissimo confondere. Eppure vi è una differenza, alla quale uno è più sensibile di un altro. Ma ci sono pochissime persone, se non sono particolarmente avvertite, che siano capaci di prevederla. Ebbene, Dubuffet è tra queste, egli conosce l'uomo meglio di voi e me.

Mia caro Jean, avevo iniziato questa lettera come una lettera, ma mi sono accorto che girava male, che scivolava verso lo studio o, come si dice, il saggio. E allora, pazienza, ho continuato. Dopo tutto, perché non citare i Cinesi (anche in uno studio)? Sono uomini come gli altri. E sono anche un po' più uomini - quando sono pittori - di quanto non siamo soliti esserlo a casa nostra. Che hanno sentito benissimo ciò che non sempre sanno i pittori europei: ossia che un pittore non deve sempre abusare della situazione. Che non deve essere troppo pittore, né troppo fiero di esserlo. E che esserlo è una sorta di singolarità che egli dovrebbe piuttosto cercare di far dimenticare. È come il critico d'arte. Vedi, non ho ancora detto che il critico d'arte è come la barzelletta, il chiacchiericcio, lo scalpiccio. Cattiva letteratura intorno ad un quadro che basta perfettamente a sé stesso. E che un'opera si difende da sola, e il resto. Ma se non l'ho detto non è per orgoglio, quanto piuttosto il contrario: è che tutti i critici d'arte, di questi tempi, cominciano da lì, in modo che è divenuto una specie di segno, un modo un po' pomposo di annunciare che si è critico d'arte. Ma cerco di evitare tutto ciò che possa somigliare alla pompa. Peraltro non avevo altro che una parola da dire: può accadere un giorno che in seguito a qualche caos o diluvio i mondi si trovino leggermente confusi. Quel giorno saremo rudemente contenti di avere sotto mano Jean Dubuffet per sbrogliarli, ma questo è solo un modo di parlare. In verità in ogni momento ciascuno di noi si imbroglia, e siamo contenti di trovare Jean Dubuffet che ci conosce così bene.

Arrivederci, a presto, caro Jean Dubuffet.

Jean PAULHAN"