26.2.05

Visita - da "Il discorso del grande sonno", Jean Cocteau

Traduzione mia. Accorata. Privilegio. Pare che questa "Visita" non sia ancora stata tradotta in italiano. Attendo smentite.

"Ho una grande triste notizia da annunciarti: sono morto.
Posso parlarti stamattina perché sonnecchi e sei malato, hai la febbre.
Da noi la velocità è molto più importante che da voi. Non parlo della velocità che si sposta da un punto all'altro, ma della velocità che non si muove, della velocità in sé.
Un'elica è ancora visibile, gira; se ci metti la mano, taglia. Noi, noi non ci vedono, non ci sentono, ci possono attraversare senza farci male.
La nostra velocità è così forte da porci in un punto di silenzio e di monotonia.
Ti incontro perché non ho tutta la mia velocità e la febbre ti dà una velocità immobile, rara nei vivi. Ti parlo, ti tocco. È bello il rilievo!
Conservo ancora un ricordo del mio rilievo. Ero un'acqua che aveva la forma di una bottiglia e che giudicava tutto secondo quella forma.
Ognuno di noi è una bottiglia che imprime una forma diversa alla stessa acqua.
Adesso, tornato al lago, collaboro alla sua trasparenza. Io sono Noi. Voi siete Io. I vivi e i morti sono vicini e lontani gli uni dagli altri come testa e croce di una moneta, le quattro facce di un gioco di cubi. Uno stesso nastro di luoghi comuni dipana i nostri atti. Ma voi, un muro interrompe il raggio e vi libera.
Vi si vede muovervi nei vostri paesaggi. Il nostro raggio attraversa i muri. Nulla lo ferma. Noi viviamo dispiegati nel vuoto.
Passeggiavo tra le linee. Era appena mattino. Hanno dovuto accorgersi di me per disgrazia, un intervallo, una cattiva disposizione del paesaggio. Mi sono dovuto ritrovare allo scoperto, stupido come un pettirosso che continua a fare toeletta sul ramo mentre un ragazzino imbraccia la carabina.
Mi sistemavo la cravatta.
Mi dicevo che avrei dovuto rispondere a delle lettere.
Improvvisamente mi sono sentito solo al mondo, con una nausea che avevo già provato sulla giostra della fiera del Trono. L'asse delle curve ti decapita, ti lascia il corpo senz'anima, la testa rovesciata, e lontano, lontano [c'è] un gruppetto rimasto a terra, sullo sfondo di atroci specchi deformanti.
Non ero né in piedi né sdraiato né seduto, piuttosto sparso, ma capace di distinguere, altrove, contro i sacchi, il mio corpo, come un vestito smesso la sera prima. Tanto più che avevo spesso notato a Parigi, nella mia stanza, il primo mattino, l'aria un po' impallinata che aveva la camicia.
Avevo un'aria così, da vestito vecchio, da camicia per terra, da coniglio morto, senza averla poiché non ero io, come la stanza a cui si pensa e la stanza, la stessa, in cui ci si trova. Allora ho avuto coscienza di essere la stanza sbagliata e di aver oltrepassato per inavvertenza un limite intorno al quale i vivi, senza mollare la presa, sistemano i loro giochi pericolosi.
Avevo mollato la presa? Mi sentivo fuori dal giro, sbarcato insomma, e solo sopravvissuto al naufragio. Dov'erano gli altri? Ti parlo di tutto questo, ma al momento non potevo individuarli: né te, né me, né nessuno.
Una delle prime sorprese dell'avventura consiste nel sentirsi dispiegati. La vita non ci mostra che una piccola superficie di un foglio ripiegato moltissime volte su se stesso. Gli atti più fittizi, più capricciosi, più folli dei vivi si iscrivono su quella superficie malferma. Internamente, matematicamente, la simmetria si organizza. Solo la morte dispiega il foglio ed il suo scenario ci procura una bellezza e una noia mortali.
Constatare tutto ciò mi fa supporre fuori dal sistema. È dunque anormale che io constati. Non constaterò più tra qualche tempo. Questo tempo rappresenterà per voi un secondo o tanti secoli? Tra poco non capirò più quello che sono, non mi ricorderò più ciò che ero, non verrò più tra voi.
Ah, solitudine! Nuotatore annegato, già mi sciolgo! già sono spuma! Sai, mi è difficile trovare delle parole che corrispondano alle cose che provo. Nessuna potenza m'ha vietato questo tentativo di chiarire i misteri, ma mi sento un po' colpevole, perché sono già l'organizzazione che denuncio. E rido da solo - come gli affiliati che si vedono traditi da un novizio male informato dei loro segreti - per quanto mi è difficile spiegare la mia penombra.
Ma del resto quello che ti racconto non è il semplice riflesso di ciò che pensi? Non lo dico per costruirti intorno una trappola di ghiaccio. Mi esprimo ancora troppo umanamente per non diffidare di me stesso.
Ciò che ti sorprende è che io parli come i tuoi libri, che io sappia così bene cosa contengono. Ero di quelli che dubitavano. Tu non mi rimproveravi. Tu non mi spiegavi. Tu mi trattavi come un bambino, come una donna. Ero ingenuamente il tuo nemico.
Ti chiedo scusa. È per chiederti scusa che ho fatto lo sforzo strano di apparirti.
La poesia somiglia alla morte. Conosco il suo occhio blu. Dà la nausea. Una nausea di architetto che sta sempre a stuzzicare il vuoto, ecco lo specifico del poeta. Il vero poeta è, come noi, invisibile ai vivi. Solo questo privilegio lo distingue dagli altri. Che non sognasse: egli conta. Ma avanza sulle sabbie mobili e talvolta la sua gamba sprofonda fino a noi.
Adesso elenco i tuoi meccanismi. Capisco il tuo pudore che confondevo con la mia notte.
In pubblico ho preso spesso per abbozzi le tue pagine discrete come i blocchi di quarzo dove l'acqua solida pensa una forma di cui appare solo un angolo.
E le tue galaverne, le tue decalcomanie, questa parola dell'enigma scritta con l'inchiostro su un foglio piegato velocemente a metà, che tu apri e che non contiene altro ormai che un catafalco.
E dimmi, quando i naufraghi della Città di Saint-Nazaire raccontano di aver visto tutti, di notte in mare aperto, un casinò con dei gradini, dei lampioni e dei cespugli di oleandri; il mare, la bruma e la fame non fecero opera da poeta? Ecco ciò che non deriva da quell'allucinazione individuale che ti rimproverano tanti ciechi. Questa gente con feluca era unita dalla sofferenza.
Non soffrivo prima di morire. Adesso la mia sofferenza è quella di un uomo che sogna di soffrire. Questo sogno generalmente è provocato da qualche dolore.
Tutto questo, tutto questo è simile alla manovra di cui sono appena stato vittima. Si direbbe che sia un vecchio morto a parlarti. È talmente presto che non mi hanno ancora trovato per darmi il cambio. Sono anche vicino a mia madre. Ti vedo nel tuo letto e mi vedo nella posa di un uomo miope che cerca il suo occhialetto sotto al mobile. Comincio a dissolvermi. Perché tu capisca, bisognerebbe moltiplicare all'infinito la menzogna di una pallina che si fa scorrere con la punta delle dita incrociate una sull'altra.
Vorrei che mi dicessero da quanto tempo sono morto."

23.2.05

Scrittori? Mode d'emploi [cocteaucocteaucocteaucocteau]

"Così come a Roma, oltre ai Romani, vi era un popolo di statue, al di fuori di questo mondo reale esiste un mondo immaginario, forse molto più vasto, nel quale vivono la maggior parte degli uomini".

Con questo cappelletto di Goethe, Jean Cocteau stila il suo Cordone ombelicale, un piccolo saggio, tanto sottilmente autocelebrativo quanto autoflagellante (è un malanno tipico dei consapevoli, no?), su cosa sia l'arte, chi la fa, la scrive, in qualche modo la sputa fuori.
Ce n'è per tutti i gusti, ma mi piace riportare alcuni passaggi perché dotati di grande adattabilità a tanti eventi, e poi non ultimo all'annoso discorso del come si scriva, intimamente legato al perché.
Si parte intanto con le Muse e l'Autostop:

"... Mi è indispensabile svelare di aver scoperto che le muse, lungi dall'essere fate buone, sono mantidi religiose che divorano il maschio durante l'atto d'amore, e che la poesia piuttosto che una fascinazione è un sacerdozio, un monastero dove ci si deve chiudere a qualsiasi costo, dopo aver abbandonato il palco della distribuzione dei premi.
A dire il vero, importa evitare quel palco ove trionfa l'attualità, e lavorare sotto, nell'ombra del "chi perde vince", che si oppone alle fiamme del "chi vince perde" - metodo sfavorevole in un'epoca di fretta e d'immediatezza che ha dimenticato che le muse pazienti tendono la trappola dell'autostoppismo a coloro che non si rassegnano a proseguire a piedi la via dolorosa. I poeti devono vivere al di sopra dei mezzi della loro epoca, e la gloria accorderà i suoi a quelli che agonizzano tutta la vita ed anche dopo la morte
."


Questa è per gli invidiosi a oltranza:
"È lunga la lista di coloro che sono spinti al razzismo dal malessere di non appartenere alla razza maledetta e che anche a costo di ricorrere al tavolino che ruota, si sforzano di penetrare gli arcani."

E qui si entra in tema:
"Insomma, più mi sforzo di penetrare nel mondo tenebroso in cui l'espirazione sostituisce l'ispirazione che dovrebbe arrivarci da qualche cielo, meno riesco a sciogliere la matassa di un filo che rischia ogni istante di rompersi e di lasciarci alle prese con i percorsi tortuosi del labirinto in cui ci conducono insieme la paura del Minotauro e la curiosità della percezione.
Perché non appena un'opera è scritta, essa è già postuma.
Sarei incapace di farne una copia e mi chiedo sempre cosa mi abbia reso capace di esserne l'autore. E penso che questa diversità dei miei cimenti non provenga solo dall'aiuto misterioso che mi dirige ma anche da Picasso, il cui esempio ci insegna, come dicono gli Orientali, a non "pestare mai due volte la coda della tigre". Non ignoro che il pubblico preferisca riconoscere piuttosto che conoscere e che il metodo che consiste nel non essere riconosciuti dalla forma del viso ma dallo sguardo, ci valga di essere ritenuti velleitari
."

Ecco, questa storia del riconoscere in antitesi (o al meglio, premessa) al conoscere è una sintesi brillante della scelta del facile, TV versus libro, per esempio. E il facile rifiuta il nuovo, il diverso, l'estraneo, spesso relegandolo nella sfera dell'impossibile e archiviando colui che vi si cimenta con un bel cappellino appunto da velleitario. Mi vengono in mente alcuni atteggiamenti politici ... ma calza a pennello anche per il rifiuto storico, molto italiota, di relegare la scienza a pratica stregonesca ed in ogni caso non degna di sedere pariteticamente a fianco delle patrie lettere. Divago, mi scuso, ma le piste sono tante ...

Mi interessava in realtà chiudere lo zoom sul cosa sia un "autore", magari un artista, su quale sia la disciplina cui è - forse? - doveroso piegarsi, in nome del "ogni arte sottende una tecnica raffinatissima". Riecco quindi Jean:

"Non importa. Non penso che si progredisca copiando sé stessi e credo che a forza di battere sullo stesso chiodo, quello si appiattisca. Un'opera vale solo se si integra in un'opera. È l'insieme che conta e la ripetizione di uno stile provocherebbe quella noia che rispettiamo e che i lettori prendono per fedeltà a sé stessi quando invece è il risultato della pigrizia.
In verità i personaggi che popolano la nostra opera sono meno importanti della sua architettura. Dare importanza all'aneddoto è come giudicare un pittore sulla base dei suoi modelli invece che scoprirne l'autoritratto nel modo che ha di dipingerli. Essere antimilitarista non impedisce di ammirare lo Zuavo di Van Gogh, e sarebbe un grave insulto apprezzare una tela astratta col pretesto che le sue macchie ed i suoi colori vanno bene con l'arredo della stanza in cui dovrà essere appesa
."

Mi pare feroce, molto esigente, ma spiega pure per quale ragione i banchi delle librerie siano pieni di n'importe quoi, ben distribuito e abbigliato, prefato, postfato, promozionato, recensito: tanta aria fritta, che non è che disturbi poi troppo se ci ricordiamo che fritto è buono tutto (...!); magari tutto il fritto potrebbe tentare di aggiudicarsi un nome da celebrare in vita piuttosto che postumo, e in tale speranza alla maratona partecipano tutti, tanto che rischio c'è?

E invece il rischio c'è, ed è l'inflazione di offerta, che è un male perfido come l'assenza di domanda.

21.2.05

Donne evolute

- Gustavo Dandolo ...
- Felicia Prendolo ...

s-c-adendo, lo so ... (e questa è quasi meglio!!!).

12.2.05

The Mental Seg

Trattasi di un nuovo approccio, assolutamente innovativo e dirompente, nel funzionamento molto recondito dell'interazione tra i due lobi, destro e sinistro.
Come ogni approccio innovativo si serve di strumenti concreti ed incisivi.
Funziona così: quando i gangli si aggrovigliano nel tentativo furioso di mettere d'accordo i due lobi, di sputare logica in mezzo a sommovimenti da basso ventre, arriva il seg, taglia di netto e rimette ogni cosa al suo posto. Ne conseguono due filoni completamente insensati, ma tenacemente coerenti e ovviamente divergenti.
Questo fenomeno tragicamente patologico, e di cui al mondo non gliene frega una mazza, si sta studiando con profitto in un luogo aperto ed ospitale, tanto da meritarsi l'appellativo di esclusivo e raffinato, come si conviene ad una session di studio approfondito in cui si convitano le più elevate menti pensanti del settore.
La session è democratica per definizione e quindi fa lanciare il sasso a turno a ciascuno dei convitati, che sono talmente illustri e consapevoli della loro illustraggine dal rifuggire qualsiasi coccarda di appartenenza: gli scienziati sono liberi per definizione e proprio perché tali, si ritengono dei perfetti ignoranti.
Sono gli scienziati giovani, quelli del new deal, ed è ovvio e giusto che siano loro a svecchiare i paludati corridoi in cui circolavano anziani peripatetici del pensiero.
L'oratore di turno lancia il tema. La platea vigile e attenta risponde nel merito esaurendo l'argomento in tre battute.
Ed è esattamente da qui che inizia l'analisi scientifica della session: su tutto quello che la dotta platea è capace di partorire dopo, a argomento esaurito. Si ottiene così la dimostrazione dell'utilità democratica e scientifica dell'approccio del Mental Seg.
I lavori procedono con successi insperati.
Gli scienziati sono talmente autorevoli che riescono a sviscerare il Mental Seg fino a punti inimmaginabili. Oltre il lobo destro, oltre quello sinistro, oltre i due messi insieme, oltre la retorica, oltre la dialettica, oltre.
A questo punto della ricerca, al mondo dovrebbe cominciare ad importare qualcosa, perché è evidente il contributo fattivo di questo genere di lavori per l'umanità.
Cosa c'è "oltre"?
Bisogna convenire che è una domanda migliore di quella di Amleto, anche se per onestà intellettuale si dovrebbe citare un certo Costanzo che nella sciatteria da uomo qualunque l'aveva posta altrimenti (cosa c'è dietro l'angolo?), ma a ben vedere aveva colto al volo ed in anticipo la colossale problematica che c'è, per l'appunto, "dietro".
Per dovere bibliografico, citeremo anche un altro padre putativo, quello che aveva intuito il problema e lo proponeva così: "si faccia una domanda, si dia una risposta".
Questi erano i prolegomeni. Quanto alla metafisica futura, si può star certi che la session, nel suo raffinato ritiro spirituale, darà risposte migliori di Kant.

10.2.05

Parolacce

A - anarchia - oggi sinonimo di paranoia antisociale, bombarola
B - berlusconi - nanismo associato a calvizie, il tutto coperto da 4 strati di cerone (che copre pure i nei, ma questo vespa non lo sa ...)
B - biagi - sinonimo di travestitismo, tipico dei komunisti
C - comunista - anche komunista per rafforzarne l'onomatopea volgare, si dice per designare i latori di morte e disgrazia
D - democrazia - è come la Titina, ma poiché nessuno ha più il Tempo di cercare nulla è diventato sinonimo di perditempo
E - europa - pericolosa accolita di komunisti
F - favole - vietato crederci, formula antiscientifica da bandire, quindi da banditi
G - garantismo - fraintendimento, errore lessicale (trattasi di verbo pronominale coniugabile solo alla prima persona singolare)
G - G8 - sinonimo di irreperibilità: i partecipanti sono così ristretti che non si ritrovano manco tra loro
H - hotline - dispositivo sessuale per solipsisti
I - immigrato - ladro, stupratore, terrorista; ha il vantaggio della sintesi dei concetti
L - libertà - velleitarismo anarcoide, soprattutto se applicata all'espressione della minoranza, che non si vede perché debba avere libertà di espressione visto che in democrazia (vedi D) regna la maggioranza ...
L - luttazzi - malato di libertà
M - mahatma-gandhi - coglione che crede alle favole (vedi F), alla democrazia (vedi D), all'uguaglianza (vedi U), alla non violenza (vedi N)
M - morale - condanna peggiore dei lavori forzati
N - nonviolenza - velleitarismo irrazionale, morbo che attacca le menti più fragili
O - opposizione - cosa che non si può fare, cattiveria
P - partito - sinonimo di inutilità, apparato ludico per le feste dei bambini dove si fa il gioco delle sedie
Q - quintopotere - cosa inesistente, astrusa, priva di fondamento
R - radicale - aggettivo pericolosissimo, ad altissimo rischio di deflagrazione
R - resistenza - lecita solo se misurata in ohm
S - santoro - sinonimo di storpiatura geografico-ecclesiale (santorini, sant'oro)
S - sinistra - inutilità, ma anche blasfemia
S - socialdemocrazia - cosa morta, senza vita, es. "sei bianco come una socialdemocrazia"
T - target - francamente: non ne posso più
U - uguaglianza - idiosincrasia da renitenza all'accettazione della naturale sperequazione umana (si cura con gli psicofarmaci, volendo anche l'elettrochoc)
V - virtù - sinonimo di bacchettonismo, moralismo (vedi M)
Z - zapatero - criminale afasico, dicesi di persona che crede di vivere in democrazia (vedi D)

2.2.05

La polizia delle parole

[Titolo originale: "La police des mots"; si noti che qui in francese la parola "police" può assumere diversi significati: carattere (nel senso di carattere di stampa), polizia, polizza]

La politica ha ancora un senso?
A questa domanda la filosofa Hannah Arendt rispondeva: il senso della politica è la libertà. Questa risposta, che dovrebbe rendere tutte le altre superflue, non è più ovvia.
Siamo al punto in cui anche il Partito Socialista [francese] s'interroga sull'eredità del 1968 - "l'emancipazione, la chiamata alla libertà" - e sulle regole di cui il nostro paese ha bisogno. La riflessione si iscrive perfettamente nell'aria del tempo. Mai la libertà è stata così apertamente rivendicata. Eppure è sempre più inquadrata. La democrazia si impantana nelle sue contraddizioni: per garantire le libertà penalizza le idee. Al punto che l'eccessivo "Vietato vietare" sessantottino diventa un preoccupante "Vietato dire". La moltiplicazione delle leggi sul sessismo, l'omofobia, il razzismo, l'antisemitismo, "l'antisionismo radicale", ecc. oggi si basa sul rispetto dell'altro.
Difficile contestare questi testi il cui scopo, sincero, è di rafforzare la tolleranza. Le loro conseguenze tuttavia vanno nel senso inverso delle intenzioni dei loro autori. La regolamentazione galoppante è di per sé contraria all'idea stessa di libertà di pensare e di dibattere. Essa stabilisce una polizia delle parole mentre è nella libera discussione che appare la realtà. Non è nascondendo il male che lo si combatte. Bisogna che sia visibile per poterlo fare indietreggiare. Una società che si lancia a corpo morto nella sanzione delle idee tradisce i suoi dubbi, mostra le sue paure e confessa le sue debolezze.
Siamo così poco sicuri delle nostre convinzioni democratiche da aver bisogno senza sosta di proteggerci da noi stessi?
Crediamo così poco nella forza dei nostri valori comuni da doverci imbavagliare?
Siamo così poco rispettosi dell'altro da doverci mettere la museruola?
Una società deve fissarsi dei limiti, ma la legge non può servire da diserbante per eliminare la gramigna dell'intolleranza. La paura diventa il nostro motore quando ci conduce a restringere il campo delle libertà.
Dei principi che vivono su campi trincerati sono già sul declino. Non è erigendo muri nelle nostre teste e cucendosi la bocca che vinceremo i nostri mali. Solo l'educazione, il richiamo costante dei nostri diritti e dei nostri doveri, dei nostri valori, il dibattito e la pluralità della discussione permettono di rafforzare il rispetto dell'altro e di se stessi.


Denis Jeambar
L'Express, 7 novembre 2004