26.6.10

Tenerezze mondiali

I commentatori francesi della diretta su France3, onestamente contriti della batosta de "la Squadrà", per una volta solidali, e non per complicità nella disfatta. Per la prima volta li ho sentiti cugini, cari.

L'inno italiano che fuoriusciva da una finestra, nella strada silenziosa, tre minuti dopo il fischio del novantesimo minuto il 24 giugno alle 18 e 06 minuti supplementari.

I palazzi della città adornati, qui e là, non troppo, di bandiere, tutte diverse, e tu che alzi il naso, qui e là, e ti sembra di vedere e di conoscere chi c'è dietro a quelle finestre che non hai mai guardato. Tante chiazze di nostalgia, mossa appena dalla brezzolina di giugno, discreta, un po' struggente.

22.6.10

La democrazia non esiste

I (bravi) storici sono quelli che raccontano i fatti nudi e crudi, evirati (è il caso di dirlo) da qualsiasi briciola di emotività; prescindendo da qualsiasi forma di fiducia, ovvero fede, ovvero cosa astratta, talvolta compulsiva, cieca o perlomeno miope e parecchio astigmatica, gestita dall'amigdala e non certo dalla corteccia, insomma una roba molto sentimentale e molto poco pragmatica ... ecco prescindendo da questa cosa, la storia è un elenco di fatti per lo più poco onorevoli, dove si constata inoppugnabilmente che i buoni principi sono schiacciati sempre dalla volontà di un pugnetto di persone, gli oligarchi, che nei millenni hanno sempre, quantitativamente parlando, vinto.

Questo panegirico per dire che ripassando la storia attraverso tra l'altro la lucida sintesi del caro Prof. Canfora, cadono le braccia e prende lo sconforto. Tutti i meccanismi di cui abbiamo nei secoli, soprattutto gli ultimi, equipaggiato la struttura della democrazia sono di fatto inefficaci.

Primo concetto: decide la maggioranza, la quale per via della semplice superiorità numerica, è autorizzata a (quasi) tutto.
Non è però indifferente come si costituisca tale maggioranza, e qui neanche la storia greca è in grado di fornire buoni esempi, visto che nel IV secolo ad Atene, su una popolazione di circa 100.000 abitanti, vi era sì il consiglio dei 500, ma di fatto regnavano i famosi Trenta, che non erano frutto di alcuna espressione propriamente popolare.
Servirebbe più che mai il consenso informato, ma non è un caso che sia stato relegato alle questioni sanitarie, ovviamente non per garantire il paziente ma il professionista che lo cura da eventuali ritorsioni in caso di errore.
Il consenso informato è un concetto davvero utopico, laddove con utopico non intendo qualcosa di irrealizzabile ma un obiettivo alto, seppure lontano. Che poi non è un'idea mia, ma Thomas Moore questo intendeva parlando di utopia, mentre da troppo tempo al prezioso sostantivo viene attribuito un senso talmente virtuale da ridicolizzare i suoi sani e pervicaci sostenitori.

Secondo concetto: il suffragio universale, insomma una testa, un voto. E sì, perché altrimenti al famoso popolo, già diviso in 51% e 49%, non resta davvero nulla.
Se al delicato principio della maggioranza si aggiunge un sistema per creare la rappresentanza non a suffragio universale ma maggioritario, l'oligarchia fa un altro passo avanti.

Terzo concetto: la rappresentatività, perché sia quel 51% che quel 49% sono costituiti da persone molto diverse, con istanze e preoccupazioni diverse, tutte con diritto di cittadinanza.

Lascio perdere i concetti derivati, perché adesso basta semplicemente dare uno sguardo ai paesi nel mondo ritenuti democratici, oltre che "civili" (ovvero che onorano i diritti civili), prendiamo ad esempio l'Occidente, per rendersi conto che la difficile democrazia non solo non esiste, ma non è mai esistita.

Se prima non solo non esisteva il suffragio universale, ma il consenso non poteva essere informato per via della generalizzata ignoranza, oggi, nel 2010:
- il consenso viene ottenuto attraverso la comunicazione e l'annichilimento gadgetario imposto dal sistema capitalista (che peraltro operano contro il sapere, la scienza ed ogni forma di competenza ampia ed aperta),
- il suffragio universale viene progressivamente abbandonato a favore di sistemi maggioritari, in nome di una sbandierata governabilità; in altri termini, gli oligarchi si vogliono far "incoronare democraticamente",
- la rappresentatività viene annientata dal sistema maggioritario e dalla perdita di identità che deriva dall'insofferenza del sistema a qualsiasi forma di reale dialettica; ogni detrattore della maggioranza non è più infatti un legittimo oppositore, ma un nemico, un affossatore, un "antidemocratico" (sic!).

Lo so, sembra proprio la storia di casa nostra, sarà che l'Italia in materia è stata sempre un'ottima palestra ... delle peggiori nefandezze ... ma invece è proprio così dappertutto.

E allora? Rinunciamo, solo perché oligarchi e conservatori si compiacciono della loro cortomiranza, seppure realistica?
No.

Bisogna semplicemente sapere che non si possono mai dormire sonni tranquilli, che è quello che accade nei paesi detti democratici, in cui le persone per il solo fatto di potere andare a votare, pensano di essere in democrazia e quindi di essere protetti da qualsiasi infamia.
Basta la parola? No, non è come il confetto falqui del vecchio spot, non basta la parola democrazia, né ieri, né oggi, né mai.
Bisogna non solo andare a votare, ma pensare sempre "contro", pretendere di essere diversi e diversamente rappresentati, perché la differenza dell'altro è l'unica garanzia della propria diversità.
Bisogna chiedere, bisogna fare le domande, anche quelle che sembrano stupide, bisogna pretendere e ascoltare le risposte.
Bisogna rinnovare i rappresentanti, tutti, ad ogni legislatura.
Bisogna abolire i decreti legge. La velocità delle decisioni non è quasi mai parente della loro qualità e ponderatezza.
Bisogna pensare alto e lontano, per andare meglio basso e vicino.

Il sistema si sta intortando da solo, ma per crollare ci metterà tanto, tanto tempo. Ma coloro che lo subiscono hanno un enorme, incalcolabile vantaggio globale: che siano cinesi, nigeriani, boliviani, cubani, rumeni, spagnoli, italiani, ceceni, etiopi o iraniani, tutte le minoranze messe insieme vogliono mangiare, dormire, lavorare ed avere dignità, vogliono tutte la stessa cosa! Mentre chi separatamente le dirige, ciascun gruppetto, vuole quel potere solo per sé, e soprattutto non sopporta la dissidenza.
Come non notare che anche solo il 10% dei cinesi sono 100.000 milioni di persone? E quindi il 49% (ovvero la minoranza), ben 490.000 milioni?
Meditiamo ... se è vero, come dicono i neuroscienziati, che ogni pensiero esiste solo per tramutarsi in azione.

14.6.10

Libri da NON comprare

Considerazioni su dividi et impera

Nonostante cerchi di selezionare con estrema attenzione le mie letture, mi accade ovviamente di prendere delle toppe belle e buone, nonostante le premesse.
Le premesse erano lo stand del Centro di Documentazione Giornalistica al Salone del Libro di Torino.
Mi dico che poiché c'è sempre da imparare, poiché la mia ignoranza è e rimarrà incolmabile, poiché scrivere e ciarlare non garantiscono di saper scrivere e saper ciarlare, insomma dopo questo bagno di ovvie considerazioni cedo e compro non uno ma ben due libri:
"Il salvarticolo" di F. Nanni e R. Ferrazza, 3a ristampa (preoccupante), e
"Leggere per scrivere" di P. Pedaccini Floris e P. Cotroneo Trombetta, 2a edizione.

Da dove comincio? Perché c'è poco da dire se non che sono testi, ambedue, come minimo preoccupanti, e per dirla com'è, drammatici.

Preoccupanti intanto per via di chi li edita e ci mette il nome, perché se il Centro di Documentazione Giornalistica sceglie di pubblicare questa roba, la situazione è seria e grave.

"Il salvarticolo" è una grammatica sintetica che ricorda quando si usa il congiuntivo, come si fanno i plurali, l'ortografia e la punteggiatura; livello: 5a elementare. Devo desumere che avendo io fatto la 5a elementare più di quarant'anni fa, il livello è diventato questo? Ovvero, uno che fa il giornalista e che si suppone quindi abbia terminato degli studi superiori, l'università o anche il liceo, per non parlare di una scuola di giornalismo, non sa a quanto pare usare il congiuntivo e la differenza tra "da" e "dà". Non solo, ma non ha neanche un vocabolario della lingua italiana dove andarsi a togliere qualche (legittimo) dubbio, come il participio passato di soccombere.
Non ho altro da aggiungere, se non che questo libro dovrebbe interessare al massimo, ma proprio massimo massimo, gli studenti delle elementari. Per il resto, le conclusioni si traggono da sole.

"Leggere per scrivere" invece è un manuale di lettura attiva e scrittura creativa, come dice il sottotitolo. Si scopre che per saper scrivere è necessario leggere. Roba da non credere, e infatti sgraniamo gli occhi, avidi di tanta scienza.
Poi si scopre che per scrivere occorre metodo. Convengo che questo sia meno scontato, data la quantità di scriventi che ambiscono a diventare scrittori.
Da queste premesse il manuale fa il suo dovere dispiegando tecnica e tecniche, tra struttura e obiettivi, come il romanzo, il racconto o il testo giornalistico, passando per l'elencazione delle figure retoriche, tanto per sapere come si chiamano formule espressive che utilizziamo, spesso a nostra insaputa.
Da questi punti di vista, niente da dire, anche se dopo la lettura del manuale il nostro neo-scrittore decide quasi certamente di fare un altro mestiere (il che potrebbe essere l'obiettivo recondito degliautori del manuale) oppure di ... fregarsene.

In effetti, bisognerà pure scoraggiare almeno trenta milioni di italiani dall'ambizione, spesso sognatrice e mal riposta, di essere o diventare scrittori. Perché una cosa è certa: tutti scrivono, e direi per fortuna, perché scrivere fa bene anzitutto a chi lo fa.
Sul fatto di entrare nell'empireo degli scrittori però bisognerà pur dire che tecnica, competenza ed anche estro davvero non bastano e non sono neanche biglietti da visita. Gli scrittori vengono assunti nell'empireo per altre fatalità: scelte editoriali (quando va bene), rumore mediatico, errore od orrore, insomma l'importante è stupire e violentare il maggior numero di "lettori".
Si può obiettare che la qualità presto o tardi venga fuori, ed io lo auspico e voglio perfino crederci, anche se permane la questione di come si possa valutare oggettivamente la qualità in questa materia, perché i fattori che entrano in gioco sono molteplici, almeno quanto i gusti personali dei recensori.

Ma il mio problema è un altro e riguarda proprio la volontà di dare un metodo, che si rifletterà per forza di cose nello stile e nella personalità dello scrivente. Paradossalmente, secondo me, nella scrittura creativa la creatività muore, privata della possibilità di fare e disfare anzitutto gli schemi strutturali e poi quelli interpretativi della realtà (o anche del sogno).
Ciò che è irrinunciabile e che costituisce la premessa non è il metodo ma la competenza linguistica, quello che abbiamo imparato a scuola (meri strumenti, ma indispensabili) e che possiamo perfezionare certamente leggendo e cimentandoci.
Il resto sta nella testa di ognuno, disposto o indisposto, organizzato o slabbrato, e solo alla fine lo stesso autore saprà dare un nome ed una definizione (ammesso che siano necessari) a ciò che ha elaborato.
Altrimenti è come dire al pittore come deve dipingere e poi magari anche cosa, quando all'artista basta sapere - ma può anche impararlo strada facendo - come si mischiano i colori e quali e quanti supporti esistano per la sua opera.
La creatività insomma nasce dal caos, non dall'ordine e dal metodo. E questo mi pare un segreto di Pulcinella.

Cosa ne sarebbe del surrealismo se i suoi artisti fossero stati accademicamente obbedienti e disciplinatamente metodici? Dove sarebbero Antonin Artaud, Breton e Tristan Tzara, ma anche Picasso e Van Gogh?
Ognuno sta nel tempo che gli è dato, mettendosi agiatamente nei suoi dogmi o fracassandoli sperimentando.

Noi viviamo il tempo della specializzazione, venduta come il passaporto per il successo e la competenza, ma di fatto metodo totalitario di antica memoria: dividi et impera. Parcellizzare il sapere, quand'anche spingendolo alla profondità estrema, non significa altro che stringere le menti in binari angusti, eliminando la possibilità di guardare l'orizzonte, di osservare dall'alto, di farsi contaminare dall'altro, qualsiasi altro sapere, o ignoranza o, in fin dei conti, problema. Elimina qualsiasi permeabilità, angustia l'intelligenza e rende schiavi del dio di turno, che guarda dall'alto e muove i fili, dichiarando di volta in volta di quale specialista ha bisogno.
E attenzione: perché chi non sa stare nei binari (o nei cliché) è automaticamente malato, dando luogo alla più pericolosa medicalizzazione di ogni diversità. Ma di questo parleremo meglio in apposito post.

10.6.10

Salone Libro Torino 2010

Il programma come al solito è denso e promettente, le aspettative alte, ma quest'anno c'era meno fibrillazione, forse meno provocazione e le sorprese sono state meno sorprendenti del solito.
Visto che ci sono, comincio con le critiche.

L'allestimento dello spazio fiera è diventato, ormai da qualche anno, palesemente insufficiente. Trovare posto alle migliori conferenze, e ce n'erano parecchie, era impossibile. Code, servizio di buttafuori come in discoteca, e schermi troppo piccoli con audio inadeguato all'esterno.
Persiste la questione del biglietto green point per accedere alla Sala dei 500, con relativo bagarinaggio, per cui ho deciso sin dal primo giorno di depennare dalla lista tutte le conferenze con green point, anche le poche tenute in Sala Gialla. Non sono necessariamente le migliori, quanto piuttosto quelle tenute da personaggi altamente mediatici (Sgarbi, Gad Lerner, Messner, Bindi, ecc.), tuttavia mi è dispiaciuto non ascoltare Umberto Eco, Wu Ming e Mancuso.

Diventa insomma necessario sdoppiare queste conferenze oppure trovare spazi più adeguati, oppure mettere schermi in altre postazioni, possibilmente confortevoli.

Il tema portante era "La memoria, svelata", che non ha avuto però la funzione di filo conduttore per tutti gli interventi e questo ha fatto perdere il ritmo di una visione corale, lasciando spazio a conferenze che seppure interessantissime, sono state palcoscenico di tematiche così varie da sembrare un palinsesto televisivo.

Il paese ospite, l'India, malgrado le presenze importanti, mi è parso celebrato in sordina.

Ed ora passiamo ai momenti migliori, dove svettano a pari merito, nell'impossibilità di fare una classifica, la lectio magistralis di Roberto Calasso sull'India dei miti: "Dalle avventure di Mente e Parola", quella di Tzvetan Todorov su "Letteratura ed etica", quella sulla "Verità: vederla, esprimerla, difenderla", con un'ottima Franca Dagostini, quella su "L'architettura e il territorio della memoria" di Mario Botta e le eccellenti conferenze scientifico-divulgative di Odifreddi "L'India matematica" e di Boncinelli e Benini sui "Congegni della memoria".

Calasso ha un dono, tra i molti, che altri non hanno: riesce ad inchiodarti ed affascinarti mentre lui disserta più che dottamente e ad un livello difficilmente partecipabile; crea l'estasi e la bulimia da conoscenza. La passeggiata tra i miti indiani, tra Manas (primo essere emesso dall'Inesistente, Prajapati), ovvero la Mente, e la Parola, (Vac) rappresentata dagli dei, i Deva svela tutta la drammaturgia del pensiero dell'India Vedica (l'epoca che corre tra il secondo ed il primo millennio avanti Cristo), che è pervasa dal conflitto tra Mente e Parola, che i Greci e gli Ebrei ereditarono ed elaborarono fino a superarlo. Il conflitto rappresenta anche quello tra maschile e femminile, dove Manas è l'elemento maschile e Vac è l'elemento femminile. L'obiettivo è centrato perché instilla tutta la voglia di andarsi a leggere "Ka", che come tutte le opere di Calasso non è semplice. Devo notare che l'elemento femminile porta con sé, nella maggior parte delle culture, l'idea di pericolosità, che ne impone quindi il controllo ed in ogni caso la secondarietà.

Il pensiero ed il sapere precursore indiano diventano più palesi e tangibili con la conferenza di Odifreddi sull'India matematica. Qui scopriamo come partendo dalla forma degli altari indiani - davvero curiosa, a forma di falcone con le ali dispiegate - o di altri simboli di culto si possa affermare senza ogni dubbio che l'India Vedica conosceva già i teoremi di Pitagora, Talete e Euclide. È stata bellissima la dimostrazione del raddoppio del volume di un cubo, illustrata con sapidi aneddoti. La capacità divulgativa di Odifreddi non è più da scoprire ed il talento sta tutto nel far capire ad un pubblico di non addetti senza fare concessioni alle semplificazioni che sovente sono traditrici.

Speculare a questa abilità di Odifreddi è purtroppo l'incapacità comunicativa di Yves Bonnefoy, un ospite più che prestigioso, insignito per l'occasione del premio "Alassio Internazionale" 2010 e che ha tenuto una lezione magistrale su "Leopardi e la memoria delle parole". Nonostante lo ami ardentemente, lo stimi prepotentemente, lo attendessi tenacemente, ebbene ... mi sono addormentata! Ho cercato di rimanere sveglia ma nella testa ad un certo punto girava solo "che palle". Bonnefoy va letto ma non ascoltato.

La lectio magistralis di Mario Botta su "Architettura e territorio della memoria" è cominciata così: "esisto perché mi ricordo"? L'architetto deve porsi anzitutto la domanda "che senso ha oggi costruire una casa, una scuola, un palazzo?" ed andare alla ricerca della reciprocità tra passato e presente. Ci ha ricordato che il valore iconico (monumentale) di un'opera non è legato alle sue dimensioni ma all'identità che rappresenta, e questo sottolinea prepotentemente come nel mondo globale l'identità locale diventi ancora più importante.

L'architetto in tutto questo, come ogni artista, deve interpretare la realtà ma anche i bisogni. L'uomo non ha bisogno solo di spazi funzionali, ovvero tecnici, ma anche di spazi che lo facciano sentire parte della sua storia, che si trasmette con la memoria. Una città europea insomma non sarà mai rappresentata solo da gloriosi grattacieli o edifici altamente tecnologici, e questo perché l'Europa ha una sua memoria storica che la identifica e nella quale i suoi cittadini hanno necessità di riconoscersi. E poi Botta ci ricorda che quello stesso uomo, organizzato nella comunità cittadina, ha comunque bisogno di luoghi dello spirito, siano essi spazi del sacro o della cultura. L'architetto insomma non può fare a meno di confrontarsi con la memoria dei luoghi, che è poi la memoria dei popoli che li abitano.

Mi viene in mente la straordinaria conferenza di Renzo Piano cui ho assistito quest'inverno a Bordeaux:


un susseguirsi di immagini di realizzazioni tanto diverse quanto i luoghi che le ospitano, in cui l'approccio dell' "artista" consiste nell'interpretazione di un bisogno attuale che non prescinda mai dalla cultura e dalla storia locale. La realizzazione del Jean-Marie Tjibaou Cultural Center di Noumea in Nuova Caledonia, destinata ad accogliere le istanze per lo sviluppo della cultura contemporanea Kanak, è strabiliante, in considerazione delle tecniche e delle tecnologie utilizzate dall'architetto. La volontà era di inserire nel territorio delle forme presenti nella realtà e nello spirito dei luoghi, nella fattispecie i gusci dei cocchi, ma anche di sfruttare le caratteristiche naturali, come il vento, come risorsa energetica per le necessità abitative degli edifici.
Chapeau Monsieur Piano!

Nella sua lezione magistrale Todorov ha affrontato l'eterna questione del legame tra etica ed arte ed il capovolgimento operato nel XVIII secolo con il rifiuto di assoggettare l'arte alla morale. L'arte deve perseguire la bellezza e non può quindi essere costretta da criteri utilitaristici. Il cambiamento è dovuto alla secolarizzazione ed alla democratizzazione della società, nella logica di dissoluzione delle gerarchie. Tuttavia ci fa notare Todorov che dal momento in cui sono i lettori ed in generale i fruitori che giudicano, si prepara la tirannia del mercato, che infatti non ha morale. È tutto già scritto insomma nel passaggio dal Classicismo al Modernismo.
Se tuttavia per apprezzare l'arte non possiamo più utilizzare i criteri classici e rifiutiamo di assecondare quelli moderni, come se ne esce? Todorov prende spunto da Rilke, che nel 1907 definisce quale deve essere l'atteggiamento dell'artista per produrre la sua opera: "(l'artista) non deve descrivere il suo amore per le cose, ma deve piuttosto amare le cose per parlarne".
Dunque il vero artista non sottomette il mondo a sé, ma si sottomette lui al mondo, il che consente a Rilke di affermare che c'è "consumo di amore nella creazione".
Tuttavia è lecito chiedersi se un atteggiamento così amorevole ed empatico possa dirsi privo di morale ... Anche Flaubert propone, interpretando le parole di un suo famoso personaggio, che la Grande Arte consiste nell'eliminazione dell'Io. È dunque atto morale abbandonare l'Io per votarsi all'interesse, se non all'amore, per il mondo, così che la ricerca della verità è un atto morale perché prevede l'allontanamento dall'Io.
La creazione artistica ha quindi un'essenza morale intrinseca data dal suo obiettivo (conoscere ed amare gli altri) e non come presupposto.
La verità di un'opera non risiede nel suo autore o nei suoi lettori, infatti un'opera può essere profondamente morale mentre il suo autore non lo è. Di questo abbiamo in effetti ampie conferme. Questa considerazione non può che rimandarmi però, soprattutto nella società attuale i cui modelli sono spettacolarizzati e super mediatizzati, alla questione dell'esemplarità. Quanto è difficile prendere esempio solo dall'opera e non da chi la compie? La scena attuale (politica, ovviamente, ma anche artistica) pone più che mai questo problema ...

Concludo con la straordinaria e troppo breve conferenza di Edoardo Boncinelli che ha illustrato cosa sia la nostra memoria, dove risiede fisicamente e quali rapporti intrattenga, per così dire, con la nostra psiche. Oltre al fatto di non avere una singola collocazione nelle aree cerebrali, la memoria è costituita da sequenze di eventi, affettività e senso del tempo. Già questo dato è di per sé stimolante, perché impone di capire cosa siano le emozioni e cosa significhi il tempo. Non voglio riportare qui la quantità di informazioni preziose fornite durante la lezione perché ho comprato il libro "Mi ritorno in mente" di Boncinelli, edito da Longanesi, che ho letto e di cui suggerisco caldamente la lettura: imperdibile! Scientifico ma non pesantemente accademico, onesto e non propagandistico, il libro illustra lo stato delle attuali conoscenze del nostro sistema neuronale, ma anche lo stato delle enormi non conoscenze su cui si investiga, primi fra tutto l'Io, l'autocoscienza e la coscienza: chi sono, cosa sono fisicamente, quanto pesano sulla nostra vita umana.
Un'esca però la getto, perché è succulenta: la coscienza, afferma Boncinelli, è una sorta di grande imbuto che prende i segnali neuronali (elettrici) paralleli e li trasforma in segnali seriali. Per studiare cosa sia la coscienza è necessario studiare il processo di serializzazione degli eventi ....