Bestiario linguistico o dell'abuso degli anglicismi nella lingua italiana
Penso che tutti
abbiamo notato l'invasione, ingiustificata, di termini soprattutto inglesi
nella lingua italiana.
Non è questione
di purismo fine a sé stesso, quanto piuttosto di disciplina linguistica che
aiuta a capire esattamente quello che diciamo e che ci viene detto. Capire bene
significa pensare bene e sviluppare soprattutto un pensiero proprio. Non
è questa la sede per approfondire quello che le neuroscienze, nella loro branca
chiamata neurolinguistica, hanno provato definitivamente, ossia che la povertà
di linguaggio comporta la povertà del pensiero[1], e quindi una
sorta di "stupidità" intellettuale che priva ogni persona delle sue
capacità cognitive, ossia di libera scelta in libero pensiero.
Propongo quindi a
tutti di esaminare questa prima lista di parole abusate, con il loro
equivalente italiano e chiedo a chiunque sia interessato a partecipare di proporre
altre alternative, idee o neologismi.
Ma soprattutto
chiedo a tutti di utilizzarle e di pretenderne l'uso.
Buona lettura!
Termine inglese
Termine(i) italiano(i)
Proposte
brand
marchio
marca
checklist
elenco di spunta
elenco spunta
lista spunta
lista di controllo
computer
elaboratore
device
dispositivo
display
schermo
video
driver
conducente
fake news
notizia falsa
bufala (colloquiale)
family banker
consulente bancario
footing / jogging
correre
fare una corsa
infotainement
informazione-spettacolo
infospettacolo
location
sede
ubicazione
collocazione
posto
lockdown
chiusura
blocco
isolamento
confinamento (Covid!)
mouse
topo
topino
ditiera
parental control
controllo genitoriale
controllo parentale
pet food
alimenti per animali
etoalimenti
pet therapy
terapia con gli animali
etoterapia
privacy
riservatezza
confidenzialità
vita privata
report
rapporto
relazione
resoconto
rider
fattorino
shopping
fare spese
test
prova
riprova
esperimento
timing
tempistica
touch screen
schermo tattile
trend
tendenza
work in progress
lavoro(i) in corso
In corsivo: neologismi che propongo
In corsivo:
neologismi che propongo
Osservazioni
Pretesti:
- L'inglese è più
corto:
Non sempre e non
necessario. La brevità è un'arma a doppio taglio: il suo uso infatti è
corretto solo tra persone che hanno una conoscenza omogenea (che capiscono
quindi tutte le implicazioni omesse per "brevità"). Altrimenti è un
modo per non farsi capire volontariamente (mistificazione) o per
ignoranza, oppure è un'arma di manipolazione.
- L'inglese è più
preciso oppure l'inglese è una lingua "potente":
L'inglese è una
lingua come tutte le altre e anzi un po' più complicata e meno precisa.
Prendere ad esempio i verbi frasali (o locuzioni verbali), che sono meno
intuitivi e univoci del loro corrispondente verbo italiano. In realtà, quando
non è sciatteria, si tratta di un'operazione posticcia per migliorare
qualcosa che è o viene percepito come negativo. Quindi ancora una volta, una manipolazione.
- Il termine
italiano "suona male" (per es. "mouse" = topo):
a) in realtà suona male tutto ciò a cui non siamo abituati. Ne
consegue che a forza di non utilizzare parole, il vocabolario disponibile si
assottiglierà sempre di più, insieme alle nostre facoltà cognitive.
b) Un'altra grave conseguenza del criterio astratto "suona male"
o "è brutto" è lo slittamento del senso: il termine straniero
serve a nascondere qualcosa di potenzialmente negativo (vedi
"infotainement") o a creare un'illusione (vedi "family
banker" che forse illude di essere un po' banchieri invece che semplici
correntisti quando si ha a che fare con la propria banca).
- Inglese come lingua scientifica: Se la comunità
scientifica è a suo agio, benissimo. Ma la comunità scientifica può parlare
(come parla e scrive per ragionevoli motivi) in un'unica lingua globale
(inglese) oppure nella propria lingua locale (italiano per es.), auspicabilmente
senza mischiare.
Se nelle scienze
(dure) sono utili poche parole, brevi e specifiche, così non è per lo scibile
umano che ha un bisogno imperioso di
elaborare concetti in modo esteso ed argomentato, facendo quindi ricorso
ad un vocabolario ampio, ricco, esplicativo e perfino retorico (nel senso
proprio del termine "eloquenza come disciplina del parlare o dello
scrivere").
La
stringatezza è utile a chi già sa, ma fatalmente alza muri davanti a chi non sa e che ha bisogno di
chiarezza, spiegazione, dettaglio. Poi ci si chiede perché proprio in Italia ci
sia così poca gente che segue la scienza, i suoi argomenti e le sue
investigazioni: ci sono muri invalicabili eretti proprio con l'uso elitista della
lingua[2].
- L'inglese nella
pubblicità:
La non perfetta
comprensione, se non la totale incomprensione, del linguaggio viene utilizzata
per proiettare il lettore, l'ascoltatore o il video-ascoltatore in un mondo
perfetto che non esiste ma che può sognare che esista. È lo stratagemma delle
favole, della fantasia, del desiderio e del desiderabile.
Nulla di tutto ciò
risponde al criterio di realtà. Se lo strumento del "sogno" è
legittimo, e perfino auspicabile, nella letteratura e nel cinema, esso diventa
una pericolosa arma di manipolazione per indurre indebitamente concetti come
la qualità, l'utilità, l'efficacia, l'efficienza, ecc. che attengono tutti
alla realtà concreta e verificabile delle cose. Si tratta della manipolazione
per eccellenza.
Peraltro, è palese la differenza tra la pubblicità sui supporti
cartacei e quella sull'audio-visivo. La prima infatti non può abbandonarsi alla
menzogna con la stessa facilità, in quanto la lettura prevede un tempo più
lungo e quindi un attimo di riflessione, anche involontario. Spunti di riflessione
- Il linguaggio è
l'oggettivazione del pensiero ed il pensiero esiste solo perché c'è il linguaggio,
unica possibilità di scambio, di confronto e di riprova di ciò che elaboriamo
mentalmente[1]. Senza il confronto tramite il linguaggio, il
pensiero si annichila.
- L'omologazione
linguistica presiede all'omologazione degli uomini e del loro pensiero e all'annientamento
del pensiero diverso e del pensiero critico, che sono l'unica ricchezza e
quindi la sola prospettiva positiva per la costruzione di qualsiasi futuro.
Per
approfondimenti:
[1]
Michael Kenstowicz
(ed.) Ken Hale: A Life in Language. MIT Press
Chomsky, Noam, Knowledge
of Language, New York:Praeger, 1986
Ieri sera è ricominciata su Rai3 la trasmissione "le Parole" di Massimo Gramellini.
La retorica buonista che da sempre questa trasuda e sparge collosamente a man bassa è quanto di più basso si possa offrire se si ha rispetto del pubblico, soprattutto quello di Rai3 che si aspetta originalità: nei modi, negli approcci ai discorsi e nelle tematiche, come spesso, va detto, accade.
Si apre e le strame contro il populismo cominciano a fioccare (ancora? nient'altro da dirci?). Ma cosa c'è di più slealmente "populista" della retorica, condotta con mano, peraltro insipiente, da chi si sente per definizione dalla parte dei giusti, dei buoni, di quelli che pensano bene e agiscono bene.
Nota: somiglia tanto all'esercito delle Crociate, e come ogni "esercito del bene", gli orrori che compie, sentendosene autorizzato dalla nobile causa, sono superlativi, anche perché non ci si è preparati a difendersi. A guardare bene, gli eserciti del bene sono eserciti di trincea: propalano pillole di igiene, come il feudatario gettava monete ai vassalli, perché non hanno idee né progetti per quel popolo che ammansiscono.
Così abbiamo ascoltato i sofismi tra reddito di cittadinanza e reddito universale, scavando per trovare l'inganno, e non uno (dei bbbuoni) che dica che chi vive con meno di 500 euro al mese semplicemente NON vive: anche comprando solo pasta e patate, pagando le bollette e qualche aspirina, con 500 euro non si può avere una casa, né cibo, né leggere, né vestire, né niente. Poco importa, a me, come vengano chiamati i provvedimenti, perché in Italia, paese tra i più ricchi al mondo, nonostante la crisi, questo non è ammissibile. Punto.
Ma chi sono questi Buoni cui Gramellini pretende a spada tratta di appartenere?
Sono quella sedicente sinistra (sì, sì, perché questi di sinistra non sono più da quando hanno deciso che il modello del Paese e della società è quello liberista) che ERA dalla parte della giustizia sociale, della redistribuzione, dello Stato e dei suoi servizi pubblici, ecc. che avrebbe dovuto combattere per migliorarli e ripulirli da corruzione e abuso, ma ha preferito chiudere gli occhi e lasciar fare ad altri.
Ora stanno tutti lì, smarriti, incapaci di guardarsi allo specchio, ignoranti del loro stesso pensiero (come dire, basta leggere: Gramsci, per dirne uno); e come ogni ignorante, incapace di esprimere un concetto argomentato, puntano il dito e abbaiano alla luna.
Evvai con l'espertino di turno (Breda, sic) o la famiglia col bambino immunodepresso che lotta contro gli antivax: non c'è nulla di più falso e manipolatorio che fare di casi minoritari il caso generale.
Ma serve: a creare i nuovi eroi (genitori eroici, donne eroiche, soldato eroico,...), senza capire (so' ignoranti, che ce voi fa') che ogni volta che fai il monumento al singolo reprimi la comunità e la coscienza sociale e l'interesse che tutti (non gli eroi) dobbiamo portare ai problemi nostri e quindi anche a quelli dei casi minoritari.
Poi la ciliegina è stata quella dello Stato morale: là mi sono sganasciata e poi imbufalita.
Cioè: Gramelllini ci parla di stato etico quando lui e i suoi accoliti non hanno fatto altro che sbatterci in faccia palate di moralismo: questo è buono e questo no, abbiate paura dello Stato che non attiva la "card" per le slot machines!
Ignoranti, sì, perché negli altri paesi europei dove esistono questi provvedimenti, devi rendere conto dei soldi che la comunità ti dà per sopravvivere, ed io lo trovo del tutto ovvio. Perché non è per l'appunto un regalo, ma una sovvenzione.
Ignoranti stellari. Dove esiste il "reddito di cittadinanza", ovviamente con un altro nome, la formula è quella: se rifiuti la terza proposta non lo prendi più. Allora obiettano (loro, i bbbuoni) che il lavoro bisogna crearlo. E già, l'uovo e la gallina. Certo che bisogna crearlo, ma loro hanno supinamente aderito ad un progetto in cui il lavoro e le sue leggi lo fabbricano solo e soltanto le imprese, le quali prima (come è del tutto normale, secondo la definizione di impresa) rimpinzano proprietari e azionisti, poi prendono i soldi dalle banche e se non glieli danno chiudono, con la benedizione dell'UE, e vanno ad aprire dove i lavoratori rompono meno i coglioni e li possono pagare di meno, così sono più "competitive".
Lo Stato, che proprio in periodi di crisi (che in economia sono la regola, come le stagioni in un anno, e non l'eccezione, come raccontano solo per non dire che è il modello ad essere sbagliato) dovrebbe agire per compensare, è stato depauperato, annichilito, vituperato, espoliato.
Ricordiamoci che lo Stato siamo noi e i nostri bei soldi, au passage.
Ci hanno espoliato, anche svilendo gravissimamente il corpus delle leggi, e ora che qualcuno se n'è accorto dicono che sono arrivati i Sovranisti - storcendo il nasino incipriato e infillerato - che sono ovviamente cattivissimi... perché hanno capito e gli vogliono rompere il giocattolino.
Tra le Parole di questo individuo non ho mai visto arrivarne una come "competitività". Parola pericolosissima proprio perché è già connaturata nel bios ed una società evoluta non deve fare altro che limarla, contenerla, arginarla.
La competitività è l' "homo homini lupus" hobbesiano, è lo stato di natura basso, animale. E questo hanno ottenuto i "bbbuoni" in questi ultimi 30 anni: una società che è tornata ad azzannarsi, ad odiarsi, dal vicino al dirimpettaio, dal collega della stanza accanto a quello con l'accento troppo del nord o troppo del sud, figuriamoci poi agli stranieri.
È ora di smetterla di chiamarla sinistra, perché è un errore marchiano che induce in errore soprattutto giovani freschi di studi o semplicemente persone che leggono, che della sinistra hanno tutta un'altra (e giusta) idea.
E non sono affatto bbbuoni, perché sono ignoranti fondamentalmente e di conseguenza ottusi e mistificatori e di conseguenza pericolosi.
C'è chi la
chiama satira e chi la chiama qualunquismo, pressapochismo, vuoto.
In questa,
come in molte altre vignette o "articoli" di Charlie Hebdo' trovo
l'inno roboante e francamente volgare al luogo comune. Se la cantano ancora con
italiani = spaghetti = mafia = mandolino, esattamente come hanno fatto per i
musulmani = retrogradi = bombaroli = figlidiundiominore.
Suggestioni? Zero.
Sarà che dalla satira, come da ogni forma
artistica, io mi aspetto una provocazione "visionaria", uno spunto,
una lettura che vada oltre.
In tal caso, poco importa se sia irriverente, anche
perché se si riesce a puntare sulla
nudità del re, nulla è irriverente, è solo una verità.
La
vignetta in questione non apre gli occhi di nessuno, non prospetta nulla, fa
solo lo squallido sberleffo ad un fatto accaduto e riempie la pancia solo a chi
si contenta della vulgata facile facile, come quando i comici che non sanno far
ridere affastellano parolacce, e più
volgari sono, più gli acefali ridono.
Je suis Charlie? No grazie.
Il che ovviamente non ha nulla a che vedere con la difesa, ovvia, scontata e
cristallina, della libertà di
opinione. Però le
opinioni bisogna averle e veicolarle. Sennò è aria fritta, e libertà fritta di fare e dire il
nulla fritto. Se poi qualcuno pensa che la satira, come l'Informazione o ogni
altra forma d'arte, si debba basare sulla semplificazione, allora bisogna stare
molto attenti, perché i
messaggi "semplificati" sono sempre stati le potentissime armi dei
grandi poteri totalitari.
Pourquoi je n’irai pas au rassemblement du 11 janvier 2015
Plusieurs réflexions
trottinent dans ma tête depuis mercredi dernier, il faut garder le calme parce
qu’on nous traîne, forcement et facilement, dans une émotion insupportable,
douloureuse, faite d’incrédulité, d’horreur, de compassion. Je pleure des
hommes et des femmes libres dans un monde, y compris le leur, le nôtre, qui ne
l’est pas. Je pleure des hommes et des femmes de foi (laïque, civile) tués par
un groupuscule d’infidèles.
Deuil. C’est une affaire privée, sérieuse et de longue haleine. Il est insupportable
de continuer de voir comme l’intimité, la pudeur doivent être affichées, au
risque - prétendu - de ne pas être authentiques, profondes. Il parait que le
privé doit parfois, dans nos sociétés d'images, se faire public et politique. Cette
théâtralité est l'illusion ultime d'une part de prouver que l'on est, malgré
tout, humain et d'autre part de compter quelque chose dans le débat politique.
Je ne conteste
nullement, que ce soit clair, les bons sentiments de la plupart de nous et non
plus la sincère foi républicaine. La place publique est devenue un lieu de non
sens : on croit prendre la parole, on assiste à des assassinats, Charlie
Hebdo était une place publique, elle a été ravagée ; bien avant, nous
avons vu des jeunes, des poubelles et des voitures en feu, tout passe sous l’œil
impitoyable des caméras et d’une presse affamée. Puis, on se jette dans cette
même place pour faire un deuil collectif : notre action citoyenne, tout
comme notre conscience, sont blanchies.
Ce serait la
moindre chose, si ce n’était que cela. En sortant petit à petit, et à fatigue,
de l’émotion, je vois des troupeaux de brebis qui inondent les rues, les
places, les ruelles, les chaînes de solidarité se multipliant dans l’autre
monde, le virtuel. Voilà une armée de paix, nombreuse, solidaire, fidèle... qui
se fait l’outil de la prochaine guerre.
La place est devenue
le nouveau front, lieu de partage, d’émotion et de mort. C’est l’infanterie qui
arpente les tranchées, chaque fantassin faisant nombre à la table des
négociations, qui est toujours ailleurs, inaccessible, inéligible.
Némésis. J'ai grandi dans l'idée que le politique était dans la place publique,
lieu de rassemblement. Mais une place de rassemblement politique doit, pour
avoir du sens, être déstabilisante. Rien de tout cela dans ces places qui se
remplissent pour un rite collectif, à l’instar d’un rite religieux (la religion
laïque et républicaine). Là encore : pendant un rite doit se passer
quelque chose d'audace et de provocateur.
C'est fantastique de constater que
d'un rite, en revanche, on ne garde que le silence, mot que tout récemment est
accompagné de l’adjectif "assourdissant", un oxymoron qui est
la preuve de toute notre impuissance.
Terrorisme. Les criminels qui tuent n’ont pas d’étiquette,
leur en fournir une ce n’est que jouer leur jeu et celui de leurs mandants. La
question du langage n’est pas anodine. Le langage forme des idées tout comme
les idées créent un langage. Il faut donc bien savoir et savoir dire ce que
nous voulons à nos représentants politiques. La confusion est grande et les représailles
pourraient frapper la fausse cible. C’est du déjà vu.
Je ne participerai
donc pas à la marche. Mon deuil est privé et ne durera pas un jour.
La
premessa d’obbligo, anche se può apparire ridondante, è che parlerò qui del mio salone, e non può essere che così
data l’ingente mole di proposte, incontri, ospiti e sollecitazioni tra i quali
si deve operare una scelta, molto spesso dolorosa e dagli esiti incerti.
Il
tema di quest’anno era « PRIMAVERA DIGITALE », con tutte le
implicazioni che i due termini insieme hanno nella realtà attuale e che li
rendono più che mai propulsivi. Perché la primavera araba si è servita di fatto
(o è stata possibile ?) dei nuovi mezzi di comunicazione e prima fra tutti
la rete. Intorno a questo aspetto, e
fino a spingere l’analisi molto oltre nel dettaglio disciplinare, ho ascoltato
le conferenze più interessanti.
Così
la conferenza « La mente ai tempi del
computer » di Raffaele
Simone, incalzato dalla ottima Franca
D’Agostini, ha tentato di tracciare
una succinta mappa delle problematiche a partire dal fatto che la nascita del
digitale si configura come un’autentica rivoluzione, che fa seguito alla
nascita della scrittura e poi a quella della stampa.
Per
l’acquisizione di informazioni, per il loro trattamento e per i processi
cognitivi che ne conseguono, si tratta solo di un mero cambio di supporto o c’è
altro?
Per Simone non si tratta
solo di un nuovo supporto perché c’è creazione di nuove funzioni a vari
livelli, secondo il principio
dell’esattamento (Gould e Vrba ,1982).
Tornerò su questi aspetti
prettamente linguistici parlando della conferenza di Andrea Moro.
Linguisti
e neuroscienziati infatti non concordano necessariamente sulla risposta da
dare, dividendosi, molto grosso modo, tra coloro che ritengono il linguaggio un
fatto convenzionale, e quindi un’abilità che si è evoluta nel tempo e
biologicamente (per es. Lennerberg), e coloro che propendono per la teoria della grammatica universale, che
pone la struttura del linguaggio (non le lingue!) come evento comune al genere
umano e non evolutivo (per es. Jerne, Chomsky).
Quali
sono le ricadute immediate della rivoluzione digitale? Per Simone i nuovi media
sono grandi fattori di dispersione e
sconcentrazione. La forma di sapere che offrono è da un lato ingannevole e
dall’altro così destrutturata da annichilire ab origine il suo potenziale informativo.
Ingannevole
perché il web dà libertà ma non democrazia. E la libertà appare in quanto
spazio quasi sconfinato per un narcisismo primitivo.
Se
è vero che è stato possibile dare vita a movimenti di massa, è parimenti vero
che il movimento non è una forma di democrazia, quanto piuttosto il suo
contrario (vedi lo studio delle forme di dispotismo analizzate da Montesquieu e
la sua deduzione che anche l’uguaglianza estrema si possa configurare come
tale).
Se
poi è vero che il movimento risponde ad un’esigenza di democrazia diretta, che
emerge essenzialmente per l’insofferenza
alla forma partito rivelatasi fallace, esso non è strutturato; una delle
evidenze più pericolose di questa assenza di organizzazione è ad esempio che
sovente si legge un articolo ma non se ne conosce l’autore, né le fonti, oppure
se si organizza una riunione non si sappia mai chi l’ha organizzata, insomma
chi sia responsabile di cosa. E per Simone è grave sia non poter misurare la
qualità del sapere che rispondere all’appello all’adunanza di un’entità ignota.
E in effetti messa così sembra che questa
rivoluzione sia effimera e vagamente qualunquista.
Spesso
ho l’impressione che delle rivoluzioni, nella loro immediatezza, ma più
gravemente anche a digestione secolare avvenuta, si abbia solo una grande paura
celata dentro un bisogno imperioso di dare loro una definizione, una
collocazione, un posto nello scaffale con una bella etichetta (limitante,
settorializzante, riduttiva).
È sempre la solita zuppa: non è possibile definire qualcosa adoperando un
metodo affidabile se ci si trova al suo interno.
Dunque caro Simone ha ragione
D’Agostini quando ti risponde che esistono dei problemi, primo fra tutti il
problema della rappresentanza in democrazia, e
che
a questo si deve dare risposta e non sarà facile.
Come
diceva Foucault, serve ascendente in politica ed ha ascendente chi dice la
verità. Qui bisognerebbe precisare cosa sia la verità, ma non lo faremo perché
non è la sede.
E
come diceva Simone Weil nel « Manifesto per l’abolizione dei partiti
politici », la teoria politica (rappresentanza partitica) si trasforma in
una ragione di potere e di obbedienza, come accade per esempio nella Chiesa.
La
democrazia diretta va intesa come democrazia partecipativa e deliberativa e fin
qui ha fallito (probabilmente) perché legata ai vecchi media.
I
nuovi media hanno creato per il momento movimentismo perché manca la dottrina,
l’avanguardia rivoluzionaria, gli intellettuali insomma. I quali, dico io, non rivoluzionano perché
per la prima volta nella storia sono stati abilmente assimilati (e
disinnescati) dal potere istituito piuttosto che essere messi all’indice, al
rogo o al martirio e farne eroi postumi da rispolverare alla buona occasione.
Paradossalmente
quindi questa rivoluzione o rimarrà incompiuta o sarà una rivoluzione totale,
ovvero che dovrà fare erba bruciata di ogni cosa che la preceda per incapacità
intrinseca di saper elaborare intellettualmente.
Sulla
questione della qualità del sapere Simone ha ragione, ma il problema del cretino digitale non nasce con internet
o Wikipedia.
Ha già provveduto all’uopo la tecnologia asservita al mercato: la
prima volta che ho preso in mano un computer non riuscivo ad usarlo perché la
mia struttura mentale voleva sapere prima
come era fatto (dentro), impedendomi di affrontarlo come un qualsiasi
elettrodomestico on/off.
E ci è voluto tempo a chi mi stava vicino per
convincermi che non era necessario che sapessi come era fatto dentro per
usarlo.
Che è la stessa logica dello sfruttamento di qualsiasi cosa, dalla
terra agli esseri umani. Perché se sai come sono fatti dentro, non li sfrutti a
spolparli.
E poi è la stessa logica per cui non li ami: quando si rompono, li
butti (con la terra, la vedo dura ...), perché non ci hai messo niente di tuo,
non c’è investimento. Ed è la stessa ragione per cui più butti più compri, e
via così, in perfetta logica iperliberista e ipermercantile.
Le questioni della qualità e della dispersione inerenti il nuovo medium che è la rete sono state
affrontate anche da Fernando Savater
nella Lectio Magistralis intitolata “L’etica della creazione intellettuale - Una riflessione
nell’epoca di internet”. La creazione intellettuale è una specificità
umana che si serve di due caratteristiche: la capacità di percezione della
realtà e la capacità di immaginazione. La
percezione ci tiene con i piedi saldi a terra, nell’esperienza del mondo,
mentre l’immaginazione ce ne allontana.
Il problema etico è che se rimaniamo attaccati alle percezioni perdiamo
la verità. Per Savater l’immaginazione è
un’altra forma della realtà. Se quando parliamo di realtà virtuale intendiamo
semplicemente qualcosa di distante, allora la creazione intellettuale è sempre
stata virtuale, perché si serve dell’immaginazione e ancor meglio
dell’astrazione come processi assolutamente biologici ma che consentono di
pensare e concettualizzare la forma del reale. L’intelletto, grazie
all’immaginazione e all’astrazione, separa ciò che nella realtà sta congiunto
(per esempio, un fatto, un episodio) ed è unico ed irripetibile, per renderlo
molteplice e ripetibile e questo allo scopo
di capirlo.
La
creazione intellettuale richiede quindi coraggio, perché impone tra l’altro di
pensare la morte, ovvero la nostra finitudine, l’atto naturale ed immanente
rispetto all’astrazione dell’intelletto.
Che è quello che permette a Spinoza di spiegare il nostro amore
intellettuale per l’eterno. Il riscatto al pensiero della finitudine lo offre
la poesia (v. Maria Zambrano,
“Filosofia e poesia”) perché
utilizzando il medesimo sistema di astrazione , studia la realtà che è ma anche quella che non è. In
questo senso essa svolge una funzione pietosa.
Le
tematiche di fondo della creazione intellettuale sono insomma immutate perché
internet in questa speculazione rappresenta solo un mezzo, un’esperienza
collettiva in cui ogni individuo porta la sua esperienza.
Il
problema è semmai nella capacità di distrazione
della rete. Gli stimoli sono talmente
numerosi da creare una continua distrazione allorché sappiamo che imparare
richiede invece un certo tempo. In questo senso la rete sta cambiando la nostra
capacità di creazione intellettuale.
Mi
sentirei di aggiungere che il nuovo medium,
proprio per via della sua amichevolezza e capillarità, là dove toglie, un po’
restituisce. Perché se è vero che per andare a caccia dell’informazione giusta,
“autoriale”, qualitativa e qualificata, bisogna saperlo fare e disporre quindi ex ante della capacità di farlo
(acquisita con lo studio o nell’ambiente in cui si vive, lasciando pertanto
immutato il divario di partenza che risulta da come e dove si nasce), è anche
vero che l’immensità dell’informazione disponibile agevola il lavoro del caso, funzionando esattamente come uno
stimolo ex post, a prescindere.
Mi
preme però ora soffermarmi sulla Lectio
Magistralis di Andrea Moro “Visioni del linguaggio attraverso i secoli”. Andrea è
giovane (rispetto agli altri) e vivaddio si vede nella sua esposizione, snella,
scattante, densissima, impossibile riportarla senza farle (più di una)
ingiustizia, oltre a quella della mia incompetenza in materia. Parla a mitraglietta,
stile Mentana dei tempi che furono, e per fortuna è attrezzato di diapositive
che ho fotografato e mi hanno aiutato non poco a rimettere in ordine i
frenetici appunti.
[Quest’anno
gli appunti li ho presi con il pad e mi è costata fatica essere efficiente
rispetto all’uso ormai addomesticatissimo della penna e delle aggiunte,
ghirigori e commenti estemporanei che ti consente fino all’ultimo millimetro di
carta disponibile. Il pad ti impone ordine, pochi errori di battitura, perché
nelle cose complicate se sbagli pure poi non ricostruisci più, e la logica la
devi ritrovare dopo. In realtà penso solo di dovermi abituare, perché per
contro ti ritrovi tutto sul PC, buono per essere tagliato e ripulito. E poi il
pad fa le foto, con cui posso mettere le facce su questi riassunti, e non è
poca cosa, le facce sono importanti.]
È
stata sicuramente la conferenza più stimolante di quest’anno e a dispetto del
titolo che la lasciava presagire stesa comodamente su un excursus storico,
l’approccio filologico è tutto mirato a sostenere quello scientifico (metodo),
con qualche sapiente strizzatina d’occhio a curiosità deliziose come quella
della distribuzione dei tasti sulle nostre tastiere.
Le quali recano così
curiosamente distribuite le lettere non per criteri di frequenza d’uso né per
ragioni di immediatezza, che le vorrebbero ordinatamente disposte in ordine
alfabetico. In realtà le ragioni sono meccaniche, perché nelle prime macchine
da scrivere, proprio per via della frequenza di battitura di alcune lettere, i
martelletti si impicciavano tra loro. Adoro la rivincita della materia sulla logica!
L’informazione
stravolgente e fastidiosa è che il nostro cervello è capace di reagire a
strutture linguistiche esistenti, ovvero che abbiano un loro senso anche se il
proprietario del cervello non le conosce affatto, ma rimane muto, sordo e
immobile di fronte ad un linguaggio inventato e privo di senso.
Nel
primo caso le evidenze sperimentali mostrano che l’area di Broca (area del
cervello deputata a questi stimoli) si attiva, mentre nel secondo rimane
completamente inattiva. Questo, sulla scia dei lavori svolti da Noam Chomski,
fa affermare che esista una sintassi del linguaggio che precede l’apprendimento
e che quindi la grammatica non sia solo convenzionale. Chomski ha inoltre
teorizzato la capacità del cervello di produrre strutture inscatolate. Si può
partire osservando ad esempio, come fecero Arnauld e Lancelot, che gli uomini
sono naturalmente portati ad abbreviare le loro espressioni.
Di
questo in effetti abbiamo prova più che mai tangibile nel mondo in cui viviamo,
tutto improntato alla velocità e alla sintesi, dove sembra quasi naturale che
una lingua sintetica e dotata di parole corte come l’inglese abbia la meglio.
Sulla questione dell’inglese ci sono anche altre ragioni meno attinenti alla
logica e alla sociologia e molto più legate al potere, però questo ora non
c’entra.
Questa
tendenza naturale all’abbreviazione e quindi all’inscatolazione - una frase
dentro l’altra invece che tante frasi separate che obbligherebbero a ripetere
soggetti e oggetti - trova una sua rappresentazione nel principio di
autosimilarità ed il suo corrispettivo matematico nella struttura frattale. In
questo modo la sintassi si apre ad una quantità infinita di strutture ed in questo
senso costituirebbe l’ossatura di tutte
e solo le lingue umane. Un’intuizione postulata già da Ruggero Bacone:
"La grammatica è una e una sola in tutte le lingue secondo la sua sostanza, anche se possono esserci della variazioni accidentali."
Ho fatto volutamente il percorso a ritroso rispetto alla presentazione
di Moro perché a conti fatti lui voleva arrivare qui da dove ha cominciato, da
questa frase di Marco Terenzio Varrone che postula qualcosa che va contro larga
parte di tutto quello che fino ad oggi la scienza ha prodotto in osservanza
alla teoria dell’evoluzione darwiniana.
“Chiamo
“natura” il caso nel quale tutti noi non chiediamo come declinare un nome
dato [...] ma lo decliniamo da soli”.
Tuttavia
Moro non si situa neanche definitivamente da questa parte perché le due visioni
possono essere conciliate con quello che chiamerei un principio di economia
utilizzando l’esempio fornito proprio dall’autore: l’occhio umano è sensibile
solo ad una ristretta gamma di onde elettromagnetiche. Non è implausibile
pensare che una maggiore sensibilità potrebbe portare ad un sovraccarico. E non
è neanche implausibile che molte delle potenziali abilità dei nostri organi non
si siano sviluppate perché non utili. Rimane comunque in questa proposta che il
linguaggio sia né più né meno che un organo funzionale, alloggiato nel
cervello, ma preesistente a qualsiasi forma di sapere.
Nonostante
ogni anno io faccia grande attenzione a non infilarmi nelle sale dove sul palco
parlano personaggi molto mediatizzati, è per Luciano Canfora che mi sono collocata in sala rossa, dove sul palco
è arrivato, pure in ritardo, Matteo
Renzi, e da dove sono uscita prima della fine per insofferenza fisica e
psichica alle modalità espositive e alla sostanza (già, quale sostanza?) di
questi dibattiti. Si doveva discutere di “Politica e
democrazia al tempo del web” e il confronto poteva prendere delle piste
interessanti che ovviamente non ha preso e quindi è probabile che io sia
entrata con l’intento di trovare ulteriori conferme ai miei pregiudizi. Può
essere, fatto sta che è andata così perché ho ascoltato la fiera della
banalità, ho sentito il trito e il ritrito, il buonsensismo concupiscente di
anime belle da tranquillizzare con la “forza buona” .... sì, sì, ma i
contenuti? Il Renzi ha detto più o meno nell’ordine: bisogna fare la differenza
tra comunicazione e informazione, la rete non rappresenta tutti, ma siccome fa
molto rumore come Grillo, allora sembra più importante di quello che è, Grillo
prima di fare l’arruffapopolo spaccava i computer ... . Canfora ha provato a
dire qualcosa di più interessante interrogandosi su quale tipo di democrazia
possa produrre una tecnica come la rete, in quanto lo strumento stesso
sopperisce alla partecipazione.
Devo
constatare, con sempre crescente tristezza, che la rete fa proprio paura a
tutti. E probabilmente questo basta per ritenerla davvero rivoluzionaria.
Tra
le delusioni devo anche citare la presentazione del libro “Ira e indignazione “ di Remo Bodei, che ha tutta l’aria di essere una marchetta
editoriale. Dell’ora trascorsa a
disquisire sulla differenza tra ira e odio e indignazione, chi è buono e chi è
cattivo, mi resta l’osservazione dell’autore sul fatto che oggi ira e
indignazione, che in passato hanno mosso rivoluzioni o sostenuto ideologie,
sono diventate una forma di vittimismo, a riprova dello stato di depressione
sociale in cui ci troviamo. E uno dovrebbe comprarci un libro? Mah.
Buone
notizie invece sul fronte ecoambientalista, ben strutturato, rigoroso,
scientifico, propositivo e per nulla pedante. A parte la simpatia che nutro per
Luca Mercalli, che a sorpresa dichiara di avere nostalgia del passato solo
per la perduta spiritualità e che questo causa la nostra infelicità, Antonio Pascale ha elencato dati e
soprattutto le risorse disponibili: amido (ma non abbiamo una tecnologia
efficace per convertirlo), solare (stessa situazione, ma c’è allo studio una
batteria), solare dinamico (ma servono superconduttori per trasportare l’energia),
nucleare (...), idrogeno (difficile da fare), e denunciato la mancata ricerca
pubblica, che è l’unica che potrebbe offrire le necessarie garanzie per
investire nella modificazione genetica. Eh sì, bisognerà rassegnarsi ad
affrontarla questa cosa, visto che da 2 miliardi di persone che eravamo nel
1966, oggi (2011) siamo 7 miliardi ...
Una
boccata d’ossigeno poi con Ermete
Realacci che ha inanellato alcune storie di successo italiane rispettose
dell’ambiente e del buon senso (sì, stavolta sì!!!), come la riconversione di
un’azienda che faceva TV bianco e nero ed oggi fabbrica inverter per le
rinnovabili oppure l’esportazione di vino, per 4 miliardi, frutto del cambio di
strategia in vigore fino a 15 anni fa: da tanto a bassa qualità a poco ad alta
qualità, trasformazione possibile anche per via della molteplicità dei vitigni
di cui dispone il nostro territorio e che ha le sue radici nella storia, a
partire dagli Etruschi.
Un
po’ lenta e poco passionale è stata invece la Lectio Magistralis di Carlo
Ossola “Come letizia per pupilla viva”,
ovvero una nuova lettura di Dante che segue la linea del Dante dei poeti, e una
nuova brillante traduzione della Divina Commedia, legata d un bisogno di
intransigenza. Ossola invita a liberare la Commedia dal realismo introdotto
dalla critica romantica e a non deteologizzarla. Si tratta di un percorso
iniziatico, come sosteneva Pound, e di un’epica collettiva, che troverebbe una
nuova e buona collocazione proprio su una scena teatrale. Io sono semplice e da quando la Divina Commedia
l’ho rivissuta con Roberto Benigni, rivissuta col cuore palpitante, gli odori e
le puzze, la pienezza e la trasfigurazione elegiaca, fino a quell’ultimo
trentatreesimo canto del Paradiso che è la gloria dell’Uomo, dopo averla
vissuta appieno con la passione e gli scarti di umanità - ivi compresi i miei
-, da Dante ho tratto il massimo della gioia e sono contenta così.
E
comunque Dante tira, altro che burlesque e scollature: entrare in sala, fare la
coda prima (quasi per tutte le conferenze) è un atto di resistenza fisica che
col virtuale vagheggiato nel titolo del salone ha molto poco a che vedere. Ma
mica è una cosaccia, quasi quasi mi cominciava a mancare lo sgomitare,
l’ammasso pance contro schiene, la bramosia del posto a sedere che in realtà è
la carica di adrenalina che hai in attesa di ascoltare cose belle e nuove e
interessanti, che poi se non ti siedi non è molto importante ...
Su
“Scrittura e traduzione” hanno chiacchierato Gianrico Carofiglio e Ilide
Carmignani senza grande incisività. Io mi chiedo perché Carofiglio abbia smesso
di fare il magistrato per mettersi a scrivere. Magari è bravo, non so, ho
smesso da tempo di leggere romanzi (per mancanza di tempo, devo fare scelte...)
e se devo leggerne uno preferisco colmare lacune sui classici; probabilmente la
“Manomissione delle parole” dovrebbe interessarmi per varie ragioni, ma rimango
titubante. E poi perché uno come lui non è rimasto in quella trincea
fondamentale? Vabbé, forse dovrei farmi gli affari miei. Si merita un mini
video, visto che il pad li fa.
Lodevole
iniziativa quella di presentare un “Manuale di
dissuasione dalla scrittura creativa” di Paolo Bianchi. Sono molto contenta che il baricchismo intraprenda
la curva discendente, insieme al marketing (illusorio) del talento. Ho sentito
cose che ho scritto due anni fa e in un clima semigoliardico, con domande del
pubblico di rara profondità come “cosa ha cambiato internet nella scrittura” e
risposte di ancora più spaventevole sprofondità tipo “c’è gente che copia da
internet e poi pubblica come fosse roba sua”, dando di ciò la colpa ovviamente
a internet (io d’ora in poi la rete la chiamerò il Mostro), come se il plagio e
la copiatura non fossero sempre esistiti. Ohibò. Così non va il mondo.
L’incontro
previsto con Tahar Ben Jalloun è
stato annullato all’ultimo momento, e questa è cosa gravissima.
Alla
conferenza di Vittorio Sgarbi su “L’ombra del divino nell’arte
contemporanea” non sono andata per le ragioni sopra esposte, anche se
probabilmente meritava. Ma non l’ho rimpianta troppo, avendo incontrato il
nostro nel corridoio che porta alla sala gialla mentre si prestava a farsi
fotografare con chiunque: suore, nonne, figlie, nipoti e mamme, la bava lunga,
ed esangue, del priapismo di Stato. Cosa direbbe Cetto? ‘Ntu culu.
Interessante
invece la conferenza di Paolo Crepet
e Vittoriano Solazzi, presidente del
consiglio regionale Marche, su “Come cambiano i luoghi
della comunicazione umana”. Crepet è almeno limpido, chiaro, incisivo ed
onesto intellettualmente. Il rischio del tempo dedicato al computer e alla rete
è l’illusione che tutto sia semplice e a portata di mano, una sorta di cultura
della comodità, che rallenta i processi cognitivi. Delegare la fatica del
pensare al PC è pericoloso. Questo rallentamento, questa mancanza di presa
diretta può essere anche una delle cause della sempre minore passionalità dei
giovani. Crepet si preoccupa del fatto che i giovani conoscano sempre meno la
passione intesa come trasporto incontenibile, furia, briglie sciolte, senza
averne paura. Così che, restando nell’ignoto, una volta agita scappa di mano. Per contro la tecnologia ha bisogno di
creatività! E gli schermi dovrebbero essere utilizzati non per fare il download
ma per tanti upload carichi di idee.
Il
disinteresse per l’emotività degli altri provoca il ripiego solitario sullo schermo.
Siamo diventati tutti un po’ autistici, nessuno ti chiede più come stai perché
non vuole ascoltare la risposta. Mentre la tecnologia può e dovrebbe essere
usata per sondare l’anima e non per nasconderla. Un consiglio: far parlare i
ragazzi del loro futuro e insegnargli a gettare il sasso oltre. E io condivido
tutto e ringrazio.
Il
presidente dell’autorità garante per la protezione dei dati e la riservatezza, Francesco Pizzetti, ha fatto una Lectio Magistralis su “Controllo dei dati e diritto alla riservatezza” di una
tristezza ed inutilità preoccupanti. Tentando un colpaccio di avvio con un
riferimento a 2001 Odissea nello spazio, su cui c’è stato un fremito della sala
che si apprestava a goderne lungamente,
Pizzetti ha iniziato una lunga storia dell’uomo che da quando esiste lascia
informazioni e che da sempre cerca di mettere una barriera sul loro
disvelamento. È andato avanti così per un’ora, mentre io aspettavo invano di
vedere attaccata la questione dal punto di vista tecnico e giuridico, sulle
difficoltà di generalizzare questo tipo di norme, alla base delle quali
attendevo una risposta formale su definizioni date per scontate come “pubblico
interesse”. E dire che l’ha citato e stracitato il “pubblico interesse” ma
certo è che se non se ne dà una definizione condivisa, su quali linee guida
sarà mai possibile legiferare sulla riservatezza? Domande rimaste senza
risposta. Il nulla fritto è uno dei piatti internazionali più diffusi e
apparentemente digesti forse perché davvero a buon mercato.
Mi
sono molto divertita a sentir litigare due filosofi: Maurizio Ferraris e Pier
Aldo Rovatti intorno alla fine, probabile, del pensiero debole
trasformatosi, secondo Ferraris, nel nuovo realismo e sulla contestazione di
Rovatti di una qualsiasi forma di novità introdotta dal nuovo realismo, che si
iscrive piuttosto nella scia del postmodernismo. Dialettica intrigante,
sostanza poca. Titolo della conferenza “Chi ha paura
del realismo? Nuovo realismo e postmoderno nella filosofia globalizzata”.
Concludo
con l’interessante esame dei documenti strategici USA declassificati sui quali Maurizio Molinari ha scritto un libro
edito da Rizzoli. Da notare che in Italia questo tipo di prassi non esiste e
che i più recenti documenti segreti pubblicati risalgono al 1953! In assenza di
una normativa sui documenti delle ambasciate, la ricerca di dati e informazioni
per (ri)scrivere la storia è un’attività di ricerca certosina che va dagli
archivi dei partiti e fondazioni ai diari personali e agli scritti privati.
Emerge l’urgenza di una disciplina per queste fonti, anche se l’autore avverte
scrupolosamente che la documentazione non è tutto perché ha bisogno di essere
contestualizzata.